Recensione a “Il Grinta” dei fratelli Coen (da “Giudizio Universale”, febbraio 2011)

Recensione a “Il Grinta” dei fratelli Coen (da “Giudizio Universale”, febbraio 2011)

Ha l’età di Lolita, la determinazione di Jo di Piccole donne, la fiducia nel futuro di Pollyanna e la passione per l’avventura di Pippi Calzelunghe. Si chiama Mattie (la strepitosa attrice tredicenne Hailee Steinfeld) e la sua storia, creata in un romanzo americano del 1968 da Charles Portis, Un vero uomo per Mattie Ross, rivive oggi per la seconda volta sul grande schermo nel nuovo film dei fratelli Coen che arriva nei cinema italiani il 18 febbraio. La prima fu nel ’69 ne Il Grinta che valse il suo unico Oscar a John Wayne. Ma siccome, a parte il titolo, True Grit, i Cohen prendono le distanze da quel precedente, essendo andati alla fonte del romanzo e non volendo minimamente fare un remake, abbandoniamo il passato e veniamo alla bella favola attuale, parentesi ristoratrice rispetto agli orrori contemporanei di cui Joel e Ethan Coen sono narratori quasi insuperabili.

Non che manchino anche qui scene forti a descrivere l’umana crudeltà. Del resto siamo nel Far-West del 1870, fra sceriffi poco corretti e avanzi di galera spietatissimi. Una fanciulla che ha paura di niente e la lingua sciolta, per vendicare la morte del padre si rivolge a uno sceriffo ubriacone (Jeff Bridges). Lo individua con acume il solo capace di dare retta a una ragazzina, e curiosamente di rispettarla, in cambio di una bella manciata di dollari. La coppia, che diventa subito trio, e pure molto litigioso, grazie a un altro inseguitore dell’assassino, il ranger texano LaBoeuf (Matt Damon), si mette in viaggio e attraversa una serie avvincente di “prove” avventurose e sanguinarie con corredo di chiari di luna, serpenti striscianti e paesaggi minacciosi.

Non è certo un film da lasciare il segno nella storia del cinema, ma ci si diverte parecchio a vederlo e, sotto sotto, insinua qualcosa sull’immagine femminile nell’iconografia contemporanea che può essere colto come un bel segno premonitore. Guardando Mattie Ross dalle lunghe trecce legate strette sotto il cappello da cow-boy, ho tutto il tempo ripensato a un’altra immagine cinematografica molto forte, quella della giovane Duras, interpretata da Jane March, nel film tratto dal suo libro L’amante. Ancora una volta una Lolita, capace di suscitare un amore folle e disperato. Solo che qui Lolita si riprende i suoi diritti e tiene testa e dà ordini a uomini che, in genere, non sopportano intromissioni. Ma sono talmente increduli, da rimanere basiti e perfino ammirati dalla superiorità intellettuale e dal coraggio della piccola fino a rischiare la vita per difenderla e comportandosi da galantuomini, mossi da un segreto spirito paterno forse, ma senza mai essere lontanamente disturbati da fantasie perverse.

Nel finale del film Mattie, diventata vecchia, è una dura zitella dalla schiena dritta che non sembra aver mai cercato alcun amore romantico, né le ebrezze del sesso, ma che sa rendere l’onore delle armi agli eroi della sua giovinezza, uno dei quali (LaBouef) avrebbe persino potuto innamorarsi di lei se solo si fossero conosciuti in circostanze meno tempestose. Non sorprende che sia un personaggio inventato nel ’68, nella temperie di un’epoca che cominciava a ridiscutere il ruolo della donna. Sorprende, favorevolmente, che lo ripropongano oggi i Coen, senza sentire l’esigenza di trasformarlo per forza in una femmina seduttiva (anzi più volte la giovane Mattie, contro ogni verosimiglianza – e quindi con uno scopo preciso – viene definita “brutta”).



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