“Camera con vista” la mia rubrica su Moby Dick (26/2/11)
SUL COMODINO
Ci sono libri che sostano sul mio comodino più a lungo degli altri, per motivi vari. In genere sono libri di amici, e questo vuol dire che sono portatori di senso di colpa. Perché potrebbero non piacermi e allora mi sentirei in imbarazzo a dire la verità, ma anche a non dirla. Così traccheggio e ne rimando la lettura cacciandomi ogni giorno di più nei pasticci, perché intanto la pila aumenta e divento di giorno in giorno più manchevole e colpevole di lesa amicizia. Capita anche che mi metta a leggerli tutti insieme, nel senso: qualche pagina di ognuno un po’ per sera per non far torto a nessuno e portarli avanti in gruppo. Ma non è una tecnica indovinata. Accade infatti che un libro s’imponga su tutti gli altri e chieda la precedenza distruggendo i buoni propositi di non far torto a nessuno.
Mi è successo con Ritratto in bianco e nero (erreciedizioni) di Leone Piccioni, che ho trascurato a lungo, direi per eccesso di stima. Perché credevo, a torto, di aver letto abbastanza dell’autore da non esserne più sorpresa, perché alcuni suoi precedenti saggi mi avevano avvicinato, con eleganza d’altri tempi e un delicato autobiografismo, a autori italiani da me piuttosto trascurati, Fogazzaro, Cardarelli, ma persino Gadda, per non parlare di Soffici e Papini. Questo Ritratto invece, che è in realtà un autoritratto costruito con materiali eterogenei («pagine legate – dice il curatore Santino G. Bonsera – a momenti ed esperienze diverse dello scrittore: viaggi negli Usa con note di jazz e con il lungo studio sulla figura contraddittoria di Malcolm X…, i viaggi in Brasile e nella musica brasiliana; e, ancora, pagine di confessioni….») mi ha catturata per la giovinezza della voce. E non perché si tratti di un’antologia di scritti che risalgono anche agli anni ’50 e ’60, quando Piccioni, nato nel ’25, era davvero un ragazzo o poco più, ma perché giovane è lo sguardo che conserva tuttora e che non era lo sguardo di un comune giovane di allora. Poco somiglia la mia cultura (soprattutto musicale) alla sua, non sono per esempio cultrice di jazz come è lui, e il suo Brasile non è simile alla mia India, per citare due paesi esotici cari alle nostre differenti sensibilità, ma nemmeno i suoi States sono attraversati da lui con gli umori della mia generazione ribelle. Eppure, quando dice dell’arrivo a New Orleans: «la discesa all’aeroporto pareva l’incontro con una stanza termale, piena di vapori umidi» le esperienze si saldano e mi sento avvolta dallo stesso calore sulla pelle che mi accoglie a Delhi o a Bombay tutte le volte. E non parla forse di me, di com’ero anch’io alla fine degli anni ‘60 quando descrive le «figlie dei fiori»? «Un poco allucinate, un poco sorridenti, irresponsabili, anche, ma drammatiche e vive, e insieme impastate di saggezza che le invecchia, di follia che le rinnova»? C’è giovinezza nei due momenti del libro in cui ricorda suo padre, come in un congedo ancora adolescente o quando descrive, con gli occhi del grande amico Ungaretti la mimosa: «caro annuncio d’inquietanti primavere».
Un altro caso per cui il libro di un amico sosta a lungo sul mio comodino è l’incomprensione. Mi è successo con L’angelo ribelle (Tropea) di Angelo Roma, di cui avevo amato i precedenti Il meticcio (PeQuod) e Le confessioni di un egoista (Tropea). Ho faticato a entrare nella storia del protagonista Gabriele Borsoni che cambia in continuazione vita e destino, e ora fa il mantenuto a Parigi, ora s’imbarca, cuoco raffinato, sulle navi da crociera per sbarcare a Las Vegas dove si sperimenta «una festa senza fine» e poi torna nella sua Bergamo e ricomincia da capo, e ogni volta ha fortuna, ma non gli basta, spinto da una febbre di cambiamento, da un’inquietudine da capogiro sostenute dalla scrittura affrettata, sincopata, velocissima. Una girandola d’incontri, di donne, di esperienze in cui la superficialità del protagonista mi sembrava riverberarsi sulle pagine fino agli incontri decisivi capaci di fermarlo ormai anziano, ma sempre irredento: un ragazzo down, unica creatura capace di felicità, e una figlia piovuta dall’incoscienza del passato. Troppo bella quella figlia modella, troppo scontata, mi aveva irritato. Ho dovuto leggere e rileggere per capire la coerenza del racconto, la sua disperazione, la sua ragionevolezza. E anche la generosità a mettersi in gioco, a provare nuove strade letterarie, dell’autore, questo Angelo Roma, che in realtà non è proprio un amico, ma un mio lettore con cui ho scambi epistolari, nato a Brindisi nel ‘69, ma radicato al nord, a Bergamo appunto, e che non ho mai incontrato di persona, ma ho imparato a stimare da quel che scrive e dalla passione che mette in tutto quello che fa.
Se poi l’amico è veramente tale, e si dà il caso che abiti in un’altra città, un altro paese addirittura, come succede a Franco Mimmi, bolognese che ora sta in Spagna, ma è vissuto molti anni in Brasile, ex giornalista, autore di molti romanzi sofisticati fin dal ’79 (Premio Scanno Opera prima con Rivoluzione), il suo libro resterà sul comodino lungamente perché è un modo per tenere la persona lontana vicino e perché, devo dirlo subito, il suo nuovo romanzo, Corso di lettura creativa (lampi di stampa) che è appena uscito, io l’ho letto in anteprima già da qualche mese e ne sono assolutamente entusiasta. Anzi mi sento indignata che l’editoria italiana non riservi un posto migliore a un autore tanto vario, intelligente, spiritoso come lui, che da anni si contenta dell’editoria in rete. Ma veniamo al libro, così lo cercate tutti quanti su Internet e lo acquistate per 12 euro e gli decretate il successo che merita. Come s’intuisce dal titolo, il suo Corso di lettura creativa è una parodia dei tanti corsi di scrittura che fioriscono un po’ ovunque ai nostri giorni su modello americano. Ma qui s’insegna a leggere, e a leggere un ipotetico romanzo, analizzato minuziosamente, di tal Giorgio (o forse Giorgina, il sesso è incerto) Ulivò, autore/autrice di un fondamentale Entropia. E così, questo mirabolante gioco letterario, che ricorda i salti mortali di Nabokov e gli incastri vertiginosi di Perec, si snoda allegramente in una ricerca che ha del poliziesco sulle tracce della letteratura, seminata di insegnamenti, riflessioni, sciarade, connessioni, in una specie di processo dove sono chiamati a testimoni numerosissimi altri scrittori in un fuoco di fila di citazioni memorabili e insegnamenti da segnarsi sul taccuino, fino alla domanda, drastica, commovente e conclusiva, che ogni autore pone ai suoi lettori: «Sarete capaci di capirmi?»