Intervista a Emma Dante (L’Unità 10/3/11)
L’8 marzo Emma Dante l’ha passato in teatro, al Palladium di Roma, per preparare il debutto romano (che è stato ieri) della sua già rodatissima Trilogia degli occhiali. «Coi tempi che corrono la festa delle donne è tornata importante per ciò che continua a rappresentare» dice. «Io l’ho festeggiata lavorando perché per me lavorare è sempre una festa. E fare il mio lavoro al meglio mi sembra il modo migliore di celebrarla». La Trilogia (Acquasanta, Il castello della Zisa, Ballarini) è anche un libro, appena uscito da Rizzoli. Parla della capacità/incapacità di vedere con il consueto impasto di lingua in dialetto, scurrile, carnale che poi, in teatro, diventa tutt’uno coi corpi martoriati degli attori, forzati fino al limite, contorti, urlati. «Anche se in questo spettacolo c’è così tanta dolcezza e malinconia da sorprendere prima di tutto me stessa, in fondo è uno spettacolo romantico».
Libri i suoi non di trama, ma di accadimenti, libri che sono testi teatrali in un modo che nulla spartisce col teatro di parola, la Trilogia degli occhiali come Carnezzeria (Fazi). «Anche se la parola è importante comunque, sia quando è centrale come nel monologo di Acquasanta, sia quando procedo per sottrazione, come negli altri due testi». Si affretta, Emma, a dire che lei non è una scrittrice, che il teatro resta al centro dei suoi interessi, che lei è nata attrice. Non era nei suoi progetti scrivere e diventare una regista. Ma a trentun anni torna da Roma nella sua Palermo e si sente un’attrice fallita. Allora, due anni dopo, nel ’99, fonda una compagnia sua, Sud Costa Occidentale, per sperimentare il teatro che le piace. Ogni spettacolo è un successo, in Italia e all’estero, viene letteralmente ricoperta di premi e riconoscimenti. Finché nel 2009 debutta nella regia lirica con una Carmen che divide, si becca i primi fischi della sua vita e l’esperienza deve ancora farle male perché quando si nomina Carmen Emma, inavvertitamente abbassa gli occhi fieri, sempre malinconici, e si mette sulle difensive.
La descrivono dura fino al sadismo come regista, ma non c’è traccia di questa leggendaria cattiveria nella donna gentile e appena eccentrica (una frezza biondo/bianca fra i capelli, una lunga treccina bionda tormentata in continuazione, un anello gigante fra le dita) che in mezzo alle poltrone vuote del teatro risponde alle domande senza pose e senza ritrosie, saettando intorno quel suo sguardo drammatico, opaco di un vecchio dolore. «Forse una volta ero un po’ talebana» ammette. «Ma sono cambiata, ora sono più tanquilla. Certo resto esigente, però se fossi un uomo nessuno me lo rimprovererebbe… Il mio teatro tende a violentare i corpi degli attori, è vero, ed è richiesta una grande partecipazione, rigore. Quando vengono meno m’incazzo. Però non sono io a essere violenta, è la domanda che mi faccio a esserlo. Perché io m’interrogo sempre sull’essere umano, che è atroce».
L’essere umano che le interessa è povero, malato, vecchio, di scarto insomma. Oppure terribilmente prepotente, primitivo. Come nel suo unico romanzo, Via Castellana Bandera (pubblicato da Rizzoli nel 2008) da cui progetta di trarre un film. Ha già scritto la sceneggiatura con Giorgio Vasta ed è in cerca di un produttore. Anche quel libro, dice, non l’ha scritto pensandosi romanziera, no. Lei l’ha scritto pensando al cinema, per questo la sceneggiatura le è venuta così bene, c’era già il cinema dentro. «Scrivere non è il mio talento» insiste. «Ma la storia che racconto è davvero capitata a me e non potevo farmela sfuggire. Siamo state due ore una di fronte all’altra». Come in un duello: due donne restano imbottigliate in una strada stretta di Palermo e nessuna delle due cede il passaggio all’altra. «Il cinema m’interessa come esperimento. Io trovo il mio baricentro nello sperimentare, fa parte della mia ricerca. Se poi il film dovesse andare male, mi avrà comunque dato qualcosa, non mi spavento». Dice che lavorare con uno scrittore come Vasta, un siciliano che vive al nord e ha una visione di Palermo diversa dalla sua, è stato un arricchimento.
Palermo Palermo Palermo. Che non la ama, che non la sostiene, che se ne frega del suo lavoro. Che a lei è impossibile lasciare nonostante tutto. Va fiera Emma della sua autonomia, però non le va giù l’indifferenza della sua terra per l’amore che lei mette nel teatro, per le diffilcoltà che incontra persino un’artista dal prestigio internazionale come lei, e oggi più di prima. «Dei tagli alla cultura, al teatro, soffriamo tutti, anche gente come noi che non ha mai preso una lira dalla regione e dallo stato, mai chiesto un finanziamento pubblico». A Caltanisetta ha curato per anni un festival che è stato fatto morire nel silenzio. «Far girare gli spettacoli è complicato, le turné vengono tagliate all’ultimo momento, ridotti i soldi che ti offrono. I produttori non rischiano su spettacoli nuovi. Io uno spettacolo lo provo per due mesi, faccio laboratorio prima di andare in scena. Agli attori che stanno con me devo garantire una situazione continuativa e le paghe devono essere all’altezza della loro disponibilità. Quando sono io il produttore, sono anche quella che, se lo spettacolo fa fiasco, rinuncia alla sua di paga. E nella sitazione di grande indigenza in cui versa il teatro italiano non si può più contare sulla forza di uno spettacolo. Non mi si dica che la povertà può diventare un incentivo per la fantasia: io già faccio teatro povero. Non giro con i camion: tutta la Trilogia degli occhiali entra in qualche valigia. Dove altro devo tagliare?»
I costumi da sempre se li fa da sola e sono parte importante degli spettacoli. «Sono la pelle dei personaggi. Anche per Carmen ci ho pensato io». Suo marito (dal 2007), entrato in compagnia l’anno precedente, è l’attore Carmine Maringola (anche bravissimo fotografo), un «creattore», lo definisce lei. Di quelli cioè che intervengono creativamente nel farsi di uno spettacolo, attori/autori. «Non sono prevaricatrice come si dice, lascio che le cose accadano e spesso la mia idea iniziale viene stravolta in corso d’opera». Purché il teatro non sia mai intrattenimento, ma «qualcosa di mostruoso che mi pervade», purché in pieno sole lei possa raccontare «l’ombra intorno».