MAREMOTO (racconto tratto dal romanzo “Care presenze”)

MAREMOTO (racconto tratto dal romanzo “Care presenze”)

La copertina del libro

Hitoshi cominciò parlandoci dell’incisione di Hokusai, L’onda, che rappresenta l’oceano in tempesta dominato in lontananza da un vulcano innevato, il Fuji. Fra i flutti s’intravedono tre fragili canoe, sconquassate dalle correnti, e al loro interno le teste piegate dei rematori che tentano il tutto per tutto contro la forza dell’acqua. Ma un’onda gigantesca s’innalza di lato come una bocca che si spalanca e contro di essa la disperata determinazione umana non potrà nulla.

“E’ un’immagine di tsunami che fin da piccolo mi ha suggestionato” disse. “Lo tsunami è una parete d’acqua, un’onda anomala, che si forma nelle profondità oceaniche per qualche assestamento vulcanico, prende forza nella distanza, passando indisturbato in mare aperto sotto forma di onde più o meno violente, ma poi si abbatte nelle insenature sollevandosi in un’onda gigante che arriva alla velocità di un jet e, prima di abbattersi, crea un risucchio spaventoso lasciando i pesci a boccheggiare sulla sabbia. Poi la sua forza è tale che risale i pendii trascinando con sé barche, persone, animali, alberi. Non c’è salvezza dallo tsunami”.

Hitoshi è di quelle persone che creano intorno a sé un’atmosfera di rispetto. Forse per l’intonazione della voce, per la lentezza dei movimenti. Ha qualcosa di antico nello sguardo. Ispira fiducia, ma nello stesso tempo pensi che non vorresti mai vederlo arrabbiato. Parlando si accompagnava con pacati gesti delle mani e io me lo immaginavo in kimono nell’atto di dardeggiare con la spada come i guerrieri di un film di Kurosawa.

“In una sera di apparente calma del novembre 1837” raccontava “nell’isola di Maui, il mare cominciò a ritirarsi da una spiaggia nel modo che vi ho descritto. Le imbarcazioni all’ancora, private dell’acqua, si ritrovarono in secca. Chi vide seppe immediatamente che lo straordinario fenomeno era il preludio di un eccezionale disastro e prese a scappare dando l’allarme. Ma era troppo tardi per tutti. Un intero villaggio, Kahului, fu travolto. Lo tsunami trascinò nella sua corsa per almeno duecentocinquanta metri verso l’interno tutto quello che si opponeva al suo impeto e poi, tornando indietro a precipizio, lo risucchiò in un’immane corrente di detriti. Tanta, tanta gente perse la vita in quella sciagura. Fra loro gli antenati del protagonista della storia che vi narrerò. Ho dovuto fare questa premessa perché voi capiate da dove ha origine la sua esistenza tormentata, il maremoto dei sentimenti che lo hanno devastato come lo tsunami devastò la terra dei suoi nonni”.

Se Caròl non se ne fosse già innamorata, Hitoshi l’avrebbe conquistata in quella notte d’agosto inoltrato con la sua voce liquida e cantante. Una notte calda e secca, illuminata da un’infinità di stelle. Eravamo sulla zattera, seduti in cerchio. Nessuno strumento musicale, solo lo sciabordio del lago sotto di noi.

“Naganori Iwaki aveva compiuto sessantadue anni” disse Hitoshi con l’aria di fare finalmente sul serio, cioè sottintendendo ‘qui comincia il mio racconto’. “Il medico gli aveva comunicato che non aveva molto da vivere, due o tre mesi a essere ottimisti. Da quattro anni, da quando la sua giovane compagna, Fumi, lo aveva lasciato per fidanzarsi col figlio più amato, il primogenito Kaito, si era ritirato nell’isola dei suoi avi e lì continuava a lavorare la ceramica. Ma lo faceva solo per diletto, avendo ceduto la piccola azienda di Kyoto alle figlie, Aya e Misaki, che avevano ereditato la sua arte di ceramista innovandola. Come spesso accade l’innovazione consisteva nel tornare indietro. Aya e Misaki avevano recuperato tecniche primitive forgiando vasellame dalle forme semplici, rudimentali, volutamente non rifinite e, anche per le decorazioni, riducevano la pittura al minimo, a uno sbaffo laterale, a un cerchio dai contorni imprecisi che correva lungo il bordo di una tazza, intorno alla circonferenza di un piattino. Ma lontano dall’apparire approssimativi o rozzi, i loro oggetti avevano un incanto particolare, rarefatti come nuvole, misteriosi.

Le decorazioni di Naganori, invece, leggere come fumo, erano molto complesse. Lavorava intorno a una serie di moduli di sua invenzione, ma ispirati alla grande tradizione giapponese, e li replicava con varianti minime riconoscibili solo a un occhio attento. Impiegava molte giornate per portare a termine un’unica ciotola. Negli ultimi mesi, però, aveva perso la voglia di dipingere e trascorreva le ore immobile a guardare l’oceano dalla sua casa in collina. Gli sembrava così di aver portato all’estremo il rallentamento dei ritmi di vita, perfezionato un anno dopo l’altro, contro la frenesia che si era impossessata del suo paese e del mondo intero.

– La perfezione assoluta sarà la morte – si diceva incurante del suo destino giunto alla fine.

Pensava di non avere una sola ragione per desiderare un’esistenza lunga. Le sue ultime decorazioni riprendevano un motivo ricorrente nelle sue opere, che ora si ripeteva in modo ossessivo: la riproduzione della xilografia di Hokusai intitolata L’onda. Aveva replicato la scena, che non era mai esattamente la stessa, su vasi e su piatti di diversa misura e ogni volta il tempo si spostava in avanti e l’onda avanzava sugli sventurati fino a travolgerli in un turbine circolare senza scampo.

Della malattia non aveva detto niente ai figli, né ai maschi, Kaito, Sen, Takumi, né alle gemelle. Non intendeva curarsi e sapeva che, almeno le femmine, avrebbero opposto resistenza. Era sicuro di voler evitare la chemioterapia, temeva invece di non disporre della forza necessaria a contrastare le ragionevoli motivazioni di due donne volitive.

Guardando il mare lontano, pensava a Fumi senza rancore, pensava a Hana, sua moglie, morta di parto tanti anni prima. Pensava a Kita, che aveva amato sopra ogni altra. Avrebbe dato i suoi ultimi mesi di vita per poterla stringere ancora una volta fra le braccia, ma anche Kita era morta e non era mai tornata, neppure in sogno. Hana, invece, lo tormentava. Appena riusciva a prendere sonno gli compariva davanti luttuosa, e piangeva. Lui si svegliava angosciato. Sperò di placarla andando al tempio a portare le offerte. Non frequentava abitualmente il tempio, ma andò a pregare per lei. I sogni s’interruppero.

Da quel momento si sentì in pace e gli parve di stare meglio anche fisicamente. Le sue meditazioni di fronte all’oceano erano serene. Ma più la mente gli si svuotava da preoccupazioni passate e presenti, più il ricordo di Kita prendeva forza e lo travolgeva come lo tsunami che aveva ritratto tante volte, lo tsunami di cui aveva sentito raccontare fin da bambino, lo tsunami che aveva sterminato quasi tutta la sua famiglia centosessant’anni prima.

– Credevo di averti dimenticata – diceva a Kita parlando a voce alta guardando le nuvole. – E invece, da quando sono sull’isola, ti sento di nuovo presente, come quando eri viva, quando eravamo giovani e ci amavamo. Mi hai perdonato?

Il vento non gli portava nessuna risposta. Il cielo cambiava forma mille volte e non gli dava risposta”.

Hitoshi taceva nel buio. Si era appoggiato allo schienale e riorganizzava le idee per proseguire. Indovinavo le ragioni dell’espressione turbata di Caròl che rigirava il sigillo intorno al dito. Ripensavo al vaso che Hitoshi aveva regalato a me e ricordavo la frase d’accompagnamento “l’ha fatto mio padre”. Sapevo da Cristiano che questo padre era un rinomato ceramista, morto di tumore da qualche anno. Quell’oggetto era subito entrato nel mio pantheon personale. Mi piaceva così tanto che l’avevo sistemato sul tavolo del mio studio e ci tenevo i fiori del giardino. M’incantavo a guardare la decorazione in tinte pastello marrone e lilla su tre piani prospettici: fili d’erba che s’intrecciavano nel vento, acqua, gabbiani appena accennati eppure perfettamente riconoscibili. Un’immagine palustre.

“Quel che vi racconterò adesso me l’ha raccontato Naganori Iwaki in persona poco prima di morire” riprese Hitoshi. “Perché proprio a me, lo saprete dopo”.

Dondolò in avanti col busto. Di nuovo sembrò radunare le idee, vidi vibrare un muscolo facciale in un raggio di luna. Agganciò alle orecchie i capelli spioventi. Si lasciò andare contro lo schienale.

“Mi raccontò il suo segreto” disse Hitoshi. “Prima di sposare Hana, aveva avuto un figlio da una donna di nome Kita. Questo bambino morì annegato in un fiume dove era caduto inavvertitamente. La madre era affogata anche lei nel tentativo di salvarlo.

– Kita era una donna proibita – mi disse Naganori – non avrei dovuto innamorarmene. Era la giovane seconda moglie di Akira, mio padre. Gli dei mi hanno punito in modo atroce, mi hanno punito due volte: uccidendo le persone che mi erano più care al mondo e facendomi vivere in seguito la stessa esperienza che avevo imposto a mio padre, quando un altro mio figlio è stato travolto dallo stesso maremoto innamorandosi della mia compagna, Fumi. Sono cose che non dovrebbero accadere, eppure accadono. Ma quando accadono, le conseguenze sono sempre tragiche. Non si arresta uno tsunami. Una volta che la terra è stata scossa nella profondità degli abissi, l’onda procede rafforzandosi. Inizialmente non te ne accorgi, non sai nemmeno che si è formata, e quando cominci a notare le prime increspature in superficie e vedi che le increspature si gonfiano e diventano onde e che le onde si ingrossano e tutto il mare si agita come un unico gigantesco animale che si risveglia scrollandosi, ti dici che non è grave, che basta tenersi ai remi e spingere, e resistere. Ma poi da quelle onde ancora controllabili se ne forma una spaventosamente alta, una parete d’acqua che ti si leva davanti con il ventaglio della spuma frastagliato come tante dita. Non serve abbandonarsi, lasciarsi andare alla corrente sperando di essere depositati miracolosamente a riva. Il gorgo ti afferra e ti frulla sotto una montagna d’acqua, l’orientamento è perso nell’azzurro che ti crolla addosso risucchiandoti dentro la sua potenza e il tuo terrore. Non sai quante volte ho vissuto questa scena in sogno. Forse il suo ricordo veniva dagli antenati. Io mi svegliavo e non mi calmavo neppure quando mi rendevo conto che era stato un incubo e che l’incubo era finito. Perché gli incubi non finiscono se la tua vita è sbagliata. E la mia lo era.

Quando mio padre mi presentò Kita, ho pensato che fosse la più attraente creatura della terra. Cercavo ogni pretesto per restare solo con lei. Le davo lezioni di ceramica. Plasmavamo insieme le terre, uno accanto all’altra, sporchi di fango e di pittura. Facevamo girare i vasi sul tornio e ricordo che mi eccitavo pensando che la creta cui stavo dando forma erano i fianchi di Kita. Svuotavamo una scultura e il peso del materiale che mi ritrovavo sul palmo era il peso del seno di Kita. Ero accecato dal desiderio e anch’io le piacevo. Ero giovane e mio padre era vecchio, la facevo ridere, la corteggiavo in modi fantasiosi.

Non ho mai capito se Akira avesse intuito che quel figlio, Shou, concepito durante un suo lungo viaggio in Europa, mentre la moglie era rimasta a Kyoto, era mio. Egli lo amava teneramente e non aveva mai fatto mancare il suo affetto a Kita, che cominciò a essere divorata dai sensi di colpa e non mi voleva rivedere. Io ero prossimo alla follia. Credo che se non fosse morta in quel tragico modo, mi sarei ucciso io. Non potevo vivere in un mondo che la conteneva e la separava da me. Non sapevo rassegnarmi al suo abbandono. Continuavo a tormentarla con telefonate, lettere, le tendevo imboscate. Ma lei era irremovibile. Eppure sapevo che mi amava o almeno fantasticavo che fosse così. Leggevo segnali segreti nei suoi gesti, nelle sue parole, quando la famiglia si riuniva per le feste e potevo finalmente sedermi accanto a lei, parlarle. Durò tre anni questo tormento, tanti ne aveva Shou quando cadde nel fiume. Mi ritrovai a piangere il bambino e la sua mamma accanto a mio padre, squassati dallo stesso dolore e tornai a volergli bene come un tempo, prima dell’avvento di Kita nella sua e nella mia vita. Non sapere se avesse capito o no la verità, ma poter contare comunque o sulla sua ignoranza o sul suo perdono, mi consolava. Per me era più sopportabile non avere Kita perché era morta, che esserne privato lei viva.

Così uscii piano piano dal lutto e un giorno tornai a sorridere. Conobbi Hana e la sposai. Sapevo poco del suo passato, ma avevo fretta di cominciare un’esistenza normale. Lei voleva molti figli, era una donna semplice, dai delicati lineamenti di bambina. La sua grazia fragile, la sua sottomissione mi incantarono. E’ stata la moglie migliore che potessi avere e non chiedevo altro che invecchiare con lei. Ma il destino ha voluto diversamente”.

Un cellulare squillò, quello di Cristiano. Lui guardò il numero comparso sullo schermo e decise di non rispondere.

“Scusate” disse. “Ora lo spengo”.

“Hana era mia madre” disse Hitoshi.

Mi girava la testa. Un attacco di panico mi strinse il cuore in una morsa. Avvertivo nel silenzio tangibile precipitato fra noi che anche gli altri erano nelle mie condizioni. Il canto stridulo delle cicale assorbiva l’essenza stessa dell’estate e la spandeva intorno come un profumo. Mi chiesi, per rilassarmi, se Hitoshi avesse calcolato il momento della rivelazione, che colse qualcuno completamente di sorpresa, o se il racconto avesse deciso per lui. Forse da principio non aveva avuto intenzione di svelarcene il contenuto autobiografico, tanto è vero che s’era cambiato nome. Forse, però, l’esigenza di verità era stata troppo forte. Ma erano riflessioni oziose.

“Hana era mia madre ed era morta per le complicazioni di un parto gemellare quando io ero ancora un bambino. Ho il ricordo di una madre bella e dolcissima che aveva allevato me e i miei due fratelli minori nell’affetto reciproco e nell’armonia. La sua scomparsa introdusse nelle nostre esistenze l’esperienza del dolore e della perdita a cui ognuno rispose con diverse difese. Sen ha imboccato molto giovane la via della droga, Takumi è diventato un monaco zen, io mi sono messo on the road: appena ho potuto sono andato via di casa a esplorare il mondo a modo mio. Sono stato a lungo anche in Italia. Per mantenermi vendevo fotografie. Credo che si possa onestamente dire che fossi un fotografo, e anche un bravo fotografo. Ma a quei tempi mi dava fastidio riconoscermi in una professione. Così, quando in società con un amico mi misi a girare documentari, che ebbero successo, ricevettero persino qualche premio, mi guardai bene dal continuare per quella strada e tornai a girare il mondo con la mia Nikon.  Fu al ritorno da uno dei miei lunghissimi viaggi che trovai la novità. Non ne sapevo niente, perché non avevo dato notizie di me da mesi e non avevo avuto quelle di casa. Sono passati sette anni da allora.

La novità era che mio padre aveva una nuova compagna. Lo appresi da Aya e Misaki. Ero andato a trovarle nel loro laboratorio, un luogo che ho sempre amato moltissimo, come ho sempre amato il lavoro di mio padre. Lo avrei seguito anch’io, ma ero completamente privo di talento per la sua arte. La creta mi si sfrangia fra le dita, non so tenere un pennello in mano. Non ho nessuna fantasia per le decorazioni e, quando ho provato a copiare un modello, il risultato era talmente inferiore all’originale che ne cavavo solo frustrazione.

Ma non divaghiamo. Dunque le mie sorelle mi misero al corrente. Mi dissero che Fumi, questo il nome dell’innamorata di mio padre, aveva due anni più di me.

– Bene – dissi alle gemelle – mi rallegro. Perché fate quelle facce da funerale?

– Pensiamo che Fumi sia troppo giovane per papà. Gli abbiamo chiesto di non sposarla.

Mi scandalizzai. Fui molto duro con loro. Non avevo mai avuto un rapporto facile con quelle sorelle che, nella mia testa di bambino, avevano ucciso nostra madre. Il fatto che fossero due, e identiche, mi aveva sempre messo a disagio.

Mi dissero che l’indovino non vedeva niente di buono in quell’unione, che anzi aveva predetto, chiaro e tondo, sciagura. Sul tavolo da lavoro c’erano tazze e sculture abbozzate. Ebbi l’impulso di distruggerle, ma loro mi prevenirono bloccandomi una un braccio una l’altro. Mi calmai.

– Voglio conoscere Fumi – dissi. – E poi vi farò sapere cosa ne penso”.

Hitoshi fece una nuova interruzione. Nessuno parlò. Riprese quasi subito, con crescente difficoltà, mi parve.

“Quando conobbi Fumi, io non sapevo ancora la storia di mio padre. Quella che voi sapete già. Non sapevo di essere destinato a ripetere un cammino di sofferenza che lui aveva percorso prima di me. C’è in Giappone un tabù più forte che in altri paesi, credo, sulla donna del padre. Un figlio non può desiderare la donna del padre. E’ un delitto gravissimo, anche se la donna non è Giocasta, non è, intendo, la madre naturale. Fumi aveva trentacinque anni e ne dimostrava venti di meno. Nemmeno per un attimo potevo confonderla con una madre o una matrigna. Gli uomini giapponesi hanno un’attrazione particolare per quelle che Nabokov definirebbe ‘ninfette’. Fumi aveva l’apparenza di una graziosissima ninfetta.

Naganori mi venne incontro sciolto come un ragazzo. Mi prese le mani allegramente.

– Non ti vedo da un secolo, figlio mio.

– Anch’io sono contento di vederti – dissi. – Sei in gran forma. Sono felice per te.

Allora lui mi fece sedere e mi versò il tè. Aveva voglia di parlare, di condividere la sua felicità. Mi raccontò l’incontro con Fumi in un ristorante di Tokyo.

– Faceva la cameriera – cominciò – con tanta eleganza e dignità che pareva una geisha, una donna d’altri tempi. Ebbi subito voglia di ritrarla e glielo proposi. Acconsentì e, disegnandola, me ne sono innamorato. A Kyoto non facevo che pensare a lei rimirandola nel ritratto. E mi veniva in mente quel passaggio del Genji monogatari, sai, quando Murasaki si rigira fra le mani lo specchio di Genji, che egli le ha regalato, e pensa ‘a che serve uno specchio se lui ha portato via la sua immagine?’ Io pensavo: a che serve un ritratto se non ho lei? Così tornai a Tokyo, in quel ristorante. Le dissi: ‘Sei giovane, non vorrai un vecchio come me’. Allora lei mi confessò la sua età. ‘Non è poi la bambina che sembra’ mi sono detto pensando che questo avrebbe reso semplici le cose con Aya e Misaki. E il nostro amore è cominciato. Il resto lo sai. Ha lasciato la sua vita di Tokyo per seguirmi. Non mi ha nemmeno chiesto di sposarla, ma io voglio farlo. Devi aiutarmi a convincere le tue sorelle che è la cosa giusta. Sai quell’haiku che dice: ‘Non lo sapevo, ma devo essere ben vecchio/ Il pino che ho piantato con le mie mani/ spinge così in alto i suoi rami’… Non ho molto tempo per essere felice.

Gli promisi che lo avrei fatto, che lo avrei aiutato.

Poi la vidi. Seppi appena entrò in casa che eravamo fatti l’uno per l’altra. E lei lo seppe nello stesso istante. Ci sono storie così e sono irresistibili. Oggi non credo che siano gli amori più profondi, ma sono senz’altro devastanti. Sono come le disgrazie, ti cadono addosso, puoi solo subirle. Allora, però, non la pensavo in questo modo. Pensavo di essere un uomo fortunato perché avevo trovato l’anima gemella. Pensavo che Fumi fosse il mio destino e che per realizzare il mio destino dovevo necessariamente spezzare il cuore di mio padre.

La prima volta che ci vedemmo da soli, c’eravamo dati appuntamento alla Porta Sanmon. Dovevo accompagnarla a conoscere Takumi, monaco al tempio Nanzenji. C’è una leggenda sulla Porta Sanmon di Kyoto: l’eroe nazionale Ishikawa Goemon, vissuto nel 1600, una specie di Robin Hood, fu catturato lì con il figlio e vennero condannati a essere gettati nell’acqua bollente. Si racconta che Goemon tenne il figlio fuori dall’acqua bollente finché non morì. Dovevo leggervi un presagio. L’amore per Fumi si trasformò presto in una bruciatura della pelle viva e di tutto il corpo. Non solo perché avevo tradito mio padre, per un motivo ancora più serio. Ma lo scoprii solo quando Naganori morì”.

Ora eravamo in allarme. Il giardino agitava ombre inquiete. Le cicale si erano addormentate. Non volava una mosca e la lieve risacca intonava un inno funebre.

“Naganori aveva convocato me per primo all’isola, sentendosi in punto di morte. Non ci parlavamo da tre anni. C’era una coppia di Maui che lo accudiva. Lui li pregò con un cenno di lasciarci soli.

– Devo rivelarti qualcosa di molto grave, che cambierà la tua vita – mi annunciò subito. – Ma prima devo dirti di Kita.

Quindi ascoltai quella vecchia storia. Mi dispiace ammetterlo, ma lì per lì me ne rallegrai. Se mio padre era passato attraverso la mia stessa esperienza, poteva comprendermi e perdonarmi, come Akira aveva perdonato lui. Per questo, pensai, mi aveva chiamato al suo capezzale, per darmi la benedizione prima dell’arrivo dei miei fratelli. Perché, allora, aveva pronunciato quella frase minacciosa? Cosa doveva dirmi di così sconvolgente?

– Se te ne parlo soltanto adesso – continuò con sforzo evidente – è perché ne sono venuto a conoscenza io stesso soltanto adesso. Giuro, figlio mio, che se lo avessi potuto sospettare anche solo lontanamente, non ti avrei messo in condizione, proprio io, di incontrarla come se fosse una donna qualsiasi.

– Ma cosa dici, padre, a chi ti riferisci?

– Parlo di Fumi, mio caro, che è stata fatale a me, e a te ancora non sai quanto.

Avvertii nuvole pesanti addensarsi sulla mia testa. Effettivamente il giorno s’era riempito di ombre, il cielo minacciava un temporale. Sentii freddo e mi gettai sulle spalle uno scialle che vidi appoggiato in un angolo.

– E’ lo tsunami che ancora si abbatte su di noi. Non finirà mai – vaneggiava mio padre.

Io da un lato ero impaziente di ascoltare il resto, ma dall’altro tremavo e temevo quanto mi avrebbe detto.

– Ti spiegavo prima che sapevo poco del passato di Hana, tua madre – riprese Naganori, dopo avermi pregato di inumidirgli le labbra. – Ultimamente mi appariva continuamente in sogno. Voleva dirmi qualcosa, ma non ci riusciva perché le lacrime glielo impedivano. E io, del resto, non volevo ascoltarla. Scacciavo la sua immagine singhiozzante con paura e fastidio, mi risvegliavo di soprassalto. Mi ero ritirato qui in cerca di pace. Lavoravo pochissimo, meditavo a lungo. Ore e ore di fronte al mare a guardare nel vuoto, niente altro.

Ebbe un gesto di stanchezza, sollevò una mano a scacciare una mosca.

– Sì, ci sto arrivando, ora glielo dico – mormorò rivolto a un cuscino di seta verde dall’altra parte del futon su cui giaceva. – E’ Kita. E’ tornata – disse volgendosi verso di me. Tu non puoi vederla, ma io sì. La meditazione potenzia i nostri sensi, o forse la morte. Chissà.

– Cosa devi dirmi? – gli chiesi accarezzandogli la mano nodosa.

Un uccellino caduto dal nido avrebbe avuto la stessa consistenza.

– Hana aveva avuto una bambina prima di conoscermi. Non ne sapevo nulla. L’aveva subito abbandonata, lasciandola alle cure di una sorella sposata, di cui non mi ha mai parlato. Keiko si chiama questa sorella, vive a Nara. Hana fuggì da Nara e venne a Kyoto. Aveva dei contatti per un lavoro come guida turistica. La conobbi così, portava i clienti nel mio negozio.

– Che c’entra Fumi con tutto questo? – domandai ostinandomi a non voler capire.

– Fumi è quella bambina, la figlia di Hana – disse Naganori e sembrò esalare l’ultimo respiro, ma il cuore continuava a battergli nel petto. Lo vedevo attraverso la pelle trasparente.

Mi venne da ridere. Poi fui attraversato da pensieri scomposti. Pensai che Fumi aveva avuto sempre un’aria di famiglia. Pensai a mia madre, piccola e delicata. La madre di Fumi si chiamava Keiko, ricordai, ma non viveva a Nara, viveva a Osaka. Tuttavia, una volta, Fumi aveva raccontato della sua infanzia a Nara. Mi aveva chiesto se ero mai stato al tempio di Horyuij dove all’ingresso c’è la statua di una divinità che da piccola le faceva paura. Fumi detestava Keiko. Era scappata di casa giovanissima per separarsene: le aveva rubato i soldi del treno per Tokyo e non l’aveva rivista. Quello di essere scappati entrambi di casa nell’adolescenza ci era sembrato un segno del destino, una irrequietezza che ci accomunava. Ora dovevo credere che eravamo stati abbandonati tutti e due, in modi e tempi diversi, dalla stessa madre. Fumi mi divenne più cara, poi mi provocò un senso di orrore, poi tornai in me e mi dissi che Naganori non era attendibile, farneticava del fantasma di Kita, farneticava sicuramente anche su Hana e su Fumi.

Arrivò Takumi. Arrivarono Aya e Misaki con Sen, che ora lavorava nel loro laboratorio come tuttofare ed era l’unico, fra noi, a dimostrare apertamente il dolore per la fine imminente di nostro padre. Naganori aveva perso conoscenza per due giorni, poi, al terzo, si era risvegliato.

Avevo una domanda da fargli.

– Papà – gli sussurrai, avvicinando la bocca al suo orecchio – mi hai detto una cosa tremenda. Mi hai detto che Fumi è mia sorella. Mi hai detto di averlo saputo soltanto da poco, da quando ti sei trasferito a Maui, suppongo. Chi ha potuto raggiungerti fin qui per raccontarti una cosa del genere?

– E’ stata Kita – rispose con un ultimo guizzo di energia. – Kita è tornata, non la vedi accanto al tatami?

– Cosa ne sa Kita di noi? Kita è morta prima che io nascessi.

– C’è anche Shou con lei, non li vedi? Il piccolo Shou in braccio a Kita.

– Vuoi che creda a un’apparizione?

– Figlio mio, a chi vuoi credere allora? Hana non riusciva a comunicare con me, nemmeno in sogno. Perciò è venuta Kita. Per avvertirmi. Tutti siamo uno. Esiste un’anima comune a tutti, il reikon, Hana, Kita, Shou, gli antenati morti nel maremoto sono nel reikon, sono il reikon. Il reikon è consapevolezza. Io sto per unirmi a loro.

Si sollevò sul tatami e sembrava anche lui uno spettro.

– Ero seduto a meditare – disse con quel po’ di voce che gli restava, una voce già dell’altro mondo – la lanterna si è messa a dondolare, il fuoco della candela ha cominciato a cambiare forma, è diventato la forma di Kita. Aveva il kimono bianco con cui è stata sepolta, con i sutra scritti sulla cintura. E’ tornata per avvertirmi. Credile, figliolo.

Sprofondò in una specie d’assenza che forse era meditazione, forse incoscienza. Poi lentamente si adagiò sorridendo.

– Lo tsunami non mi spaventa – disse ancora.

Furono le sue ultime parole”.

“Cosa è successo dopo? Fumi era davvero tua sorella?” chiese Padma, l’unica che aveva trovato naturale porre la domanda.

Hitoshi non ebbe difficoltà a rispondere.

“Sì, lo era. Ne avemmo una conferma scientifica con l’analisi del Dna”.

“Deve essere stata dura” commentò Marin.

“Abbastanza” sorrise Hitoshi nel chiarore lunare.

“E che ne è stato di Fumi?” domandò Caròl.

“E’ tornata a Tokyo. Si è sposata l’anno scorso”.

“E Kita? L’hai vista almeno in fotografia?” ancora Caròl.

“No. Di Kita non ne so più di prima. Se non una cosa forse”.

“Quale?” chiese qualcuno.

“In quella razza bugiarda che sono i fantasmi, lei si è dimostrata attendibile” rispose ilare Hitoshi.

Indovinavo gli occhi stretti nel buio. Ebbe il nostro applauso. Il ghiaccio che ci aveva avvolti durante il racconto cominciava a sciogliersi. Avevo temuto di sognare mari in tempesta. Passai, invece, una notte tranquilla.

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