Il senso di Stein per la lirica (dal Foglio, 18/6/11)

Il senso di Stein per la lirica (dal Foglio, 18/6/11)

Peter Stein

Immaginate questa scena: Riccardo Muti al pianoforte a suonare e cantare il Macbeth di Verdi dall’inizio alla fine e Peter Stein che segue sulla partitura, interrompendo e segnalando i problemi di trasposizione teatrale man mano che li individua. Sei ore intere senza pause, senza mangiare, né bere da cui alla fine emerge la versione che porteranno a Salisburgo. Un musicista puro e un regista molto musicale. Perché il senso di Peter Stein per la musica viene da lontano. Dall’infanzia, quando cantava in un coro come soprano. «Poi, crescendo, la voce è cambiata» dice il regista berlinese imitando la vocetta che diventa vocione. Allora ha studiato per anni il violino. «Ma stavo in un buco di stanza e i vicini si lamentavano. E siccome anche a me il suono che producevo sembrava brutto, via, ho venduto lo strumento. Un grande sbaglio! Come violinista non ero così male, dopotutto. Ecco, ma almeno so leggere le partiture. E per un regista di lirica mi sembra necessario. Anche se oggi, bah, vogliono essere moderni a tutti i costi e allora accettano qualsiasi idiozia da teatro parlato da parte di registi che niente sanno di musica, oppure sanno leggerla, ma se ne fregano e distruggono il senso dei testi. Così sembrano moderni!»

Polemica polemica polemica. Può Peter Stein non essere polemico? No, fa parte del suo Dna, niente che gli vada a genio, niente che lo pacifichi. Lui litiga e protesta, e polemizza. Eppure oggi, in una splendida giornata in cui tutto scintilla, il verde del suo prato perfettamente curato, il canto degli uccelli intorno, il laghetto di acqua minerale soleggiato, i germogli delle olive che già fioriscono sugli alberi dello sterminato uliveto, non c’è un motivo per arrabbiarsi. Siamo a San Pancrazio, frazione di Amelia, la sua tenuta umbra di cui ha magnificamente restaurato i vecchi ruderi, compresa la torre maestosa, e che amministra personalmente. «Questa proprietà, questa bella trappola, mi lega e chiede troppo» si lamenta. «E’ sempre più difficile mantenerla. Potrei mollarla domani, se trovassi a chi venderla». Mi permetto di non credergli, c’è un amore infinito dietro San Pancrazio. Sbuffa: «Io faccio tutto con amore, anche una marmellata faccio con amore, uno spettacolo idiota faccio con amore».

Come nel lontano ’76, suo debutto nella regia lirica con un «disastroso Anello dei Nibelunghi all’Opéra di Parigi che naufragò miseramente e mi fece decidere: mai più lirica». Invece dieci anni dopo ci riprova a Cardiff con Otello, quando è già il celebrato regista di spettacoli che fanno epoca, Peer Gynt, Orestea, Tre sorelle… e ha chiuso il suo tempestoso rapporto di fondatore e direttore artistico della Schaubühne, il collettivo teatrale che negli anni settanta/ottanta rivoluzionò le scene tedesche e il modo di leggere i classici. Da allora non si è più fermato e sono molte le regie di opere con cui ha lasciato il segno. Ora ne sta preparando due: il Macbeth verdiano con Riccardo Muti che debutterà al festival di Salisburgo il 3 agosto, per replicare a Roma al Teatro dell’Opera in autunno, e Il naso di Dmitrij Sŏstakovič, tratto dal racconto di Gogol, per l’Opernhaus di Zurigo, prevista il 17 settembre, direttore Ingo Metzmacher. Progetti per spettacoli teatrali invece niente, o quasi. «Sì, c’è qualcosa di vago, l’idea di mettere in scena un Pinter nel 2012. Da anni vorrei fare Ritorno a casa. Forse lo stabile di Prato è interessato. Forse. Bah, non abbiamo ancora finanziamenti, dove vado senza una base economica? Ecco perché penso che finirò per fare solo la lirica in futuro, esattamente come Stanislavski. Sono un regista indipendente, che vuol dire libero, libero di essere boicottato da tutti gli stabili, che sono in mano ai politici non agli artisti, in Italia, e in Germania mi odiano, mi considerano un vecchio e un reazionario. Invece per la lirica mi vogliono tutti. Mi amano i direttori musicali come i cantanti. Come mai? Perché li lascio fare tutto quello che vogliono. Ecco perché».

Riccardo Muti

Naturalmente non è vero. A cominciare da Riccardo Muti con cui al momento ha un rapporto idilliaco perché si capiscono, perché parlano lo stesso linguaggio musicale, perché hanno risolto i tanti problemi del Macbeth nel rispetto assoluto delle esigenze dell’uno e dell’altro. Ma non certo perché Stein si sia piegato a lasciar fare a Muti tutto quello che vuole. Peter Stein è, per sua stessa ammissione, «un sistematico terribile» e ben si è incontrato con un altro sistematico e gran lavoratore qual è Muti, tutti e due determinati a ottenere il miglior risultato possibile dalla loro collaborazione. Muti ha accettato le proposte di Stein e Stein ha trovato il modo di soddisfare le esigenze del direttore senza sacrificare nulla della propria regia. Nessuno dei due ama la mania attualizzante che imperversa nella lirica mondiale, tutti e due preferiscono la filologia. Riccardo Muti era determinato a fare il Macbeth con Stein, glielo aveva già proposto quando era direttore della Scala.

«Io ho rifiutato perché non sapevo da che parte acciuffarlo quel testo impossibile. Amo molto Verdi, molto. E Maddalena (l’attrice Maddalena Crippa, sua moglie n.d.r.) fra i testi di Shakespeare predilige il Macbeth. Allora ho cercato e cercato una soluzione. Ho pensato che Shakespeare con Macbeth ha portato in palcoscenico il principio stesso della tragedia, l’agens, il movente della tragedia, che è il Destino. Le streghe sono la rappresentazione del destino, così il destino irrompe materialmente in scena. Sono tre come le Parche, le Grazie, le Gorgoni, la Trinità cristiana persino. Però Verdi le ha moltiplicate nelle sessanta presenze del coro, altre sessanta streghe che gridano sul palco parapapaparapapa. E io come faccio, povero me, con tutta questa gente in scena a essere credibile? E così per l’uccisione di Banco: di nuovo il coro, sessanta assassini che non sono in grado di far fuori subito questo disgraziato e suo figlio, e lo lasciano persino scappare! Per credere a una scena simile hai bisogno delle convenzioni del melodramma, si può fare tutto in un’opera! Si può anche dire mille volte “muoio” con la ferita aperta nella pancia senza morire e cantando a squarciagola. Ma in teatro no. Bah. Così ho trovato l’uovo di Colombo. Ho separato l’azione teatrale dal canto. Il mio coro non è fatto di streghe e di assassini, ma di forze della natura, alberi, cespugli che si muovono nel vento e creano situazioni pericolose. Mi sono ispirato al bellissimo film di Kurosawa, Il trono di sangue. La caldaia è rimasta, e le tre streghe sono attori, mentre tutt’intorno la natura canta. Lo stesso per gli assassini: tre attori e un cantante. In quattro è verosimile che non riescano a far fuori un uomo forte come Banco, che ne uccide subito due, mentre il figlio riesce a fuggire. Pure qui il coro è la foresta intorno». La foresta, sempre la foresta, così importante e incombente in questa storia.

Giuseppe Verdi

Di Macbeth gli piace il doppio aspetto: è un uomo faber che deve continuamente agire, ma è anche malinconico, riflessivo, amletico. Dunque è scisso, folle da subito, mentre Lady Macbeth lo diventerà solo alla fine e morirà prima di lui senza prefigurarsi la disfatta come succede al visionario marito. Stein spiega così il passaggio dalla seconda alla prima versione dell’opera verdiana: «Le mie soluzioni non inventano niente, mi baso sempre sulle partiture». E con questo uso sapiente dell’una e l’altra partitura è venuto a capo di un altro problema che sembrava irrisolvibile. «I dodici minuti  di musica per balletto che Verdi dovette inserire nell’edizione parigina dell’opera e che spezzano incomprensibilmente l’azione». Muti teneva a quella parentesi musicale e non ne voleva sapere di sopprimerla. «Io capisco il suo punto di vista e allora gli propongo di farne una specie di ouverture del terzo atto, prima della seconda scena con le streghe. Ha accettato. E lo credo! Funziona molto meglio, anche musicalmente ha più senso. E sono sicuro che ormai farà così anche in futuro».

Il naso gli ha dato meno problemi. E dire che da quel “reazionario sistematico” che era, per molto tempo si è rifiutato «di considerare musica tutto ciò che veniva dopo Johann Sebastian Bach. Nemmeno Mozart mi andava a genio. E non parliamo di Wagner per il quale avevo una resistenza ideologica!» E per fortuna che piano piano ha scoperto anche la musica del ‘900. Ora lo ammette: «Il Pelléas et Mélisande di Debussy con Pierre Boulez è una delle cose più belle che ho fatto».  Ma anche il Wozzeck di Alban Berg con Claudio Abbado ha convinto critica e pubblico fino al tripudio. Si schermisce: «Ho fatto anche regie merdosissime». Per esempio? «Il Simon Boccanegra del mio amatissimo Verdi. No no no. Impresentabile». Ma era l’anno, il 2000, in cui aveva dato tutto se stesso a uno dei suoi capolavori teatrali, il Faust di Goethe, versione integrale in ventuno ore all’Expo di Hannover. Un evento straordinario. Torniamo al Naso, un lavoro che lo eccita molto e per il quale torna a lavorare con Metzmacher: insieme avevano già portato in scena con successo Die Bassariden di Henze.

«E’ una partitura completamente pazza» dice entusiasmandosi, «composta nel 1928, durante l’ultima fase della rivoluzione bolscevica da uno Sŏstakovič ventiduenne che va a ripescare questo testo di Gogol. Il messaggio, curiosamente, non è progressista, ma quasi di confusione dadaista. Si ironizza sulla polizia, si contrappone il destino individuale all’isteria di massa. Bello, bello. E anche la musica, sorprendente, in gran parte senza canto. Sto lavorando  sull’estetica futurista del tempo. Mi piace molto».

Anton Cecov

Peter Stein è stato anche un grande viaggiatore in passato. Gli chiedo cosa resta di quei viaggi e come mai non ne fa più. «Viaggiare fa parte dell’educazione di un borghese quale sono io» riflette. «E’ un metodo per conoscere il mondo. I tedeschi sono provinciali, sentivo il bisogno di evadere. E poi faceva parte del concetto di teatro autodeterminato della Schaubühne viaggiare insieme per fare comunità, vedere insieme i posti, le case dove avevano vissuto gli autori. Così siamo stati in Africa alla ricerca di Genet, in Russia sulle tracce di Cecov. Non direi che è necessario per capirli, perché la fantasia può bastare. Ma può servire. E’ un’esperienza reale, non solo turistica e cioè superficiale. Vedendo la casa, i luoghi di Cecov, per dire, ho avuto la conferma di particolari che avevo intuito leggendo le sue lettere, mi sono sentito più vicino alla persona che è dietro lo scrittore. Insomma nulla di scientificamente urilizzabile, utilizzabile semmai sentimentalmente, ma l’arte è fatta di sentimenti, no?

Sarà per questo che i russi lo considerano «più russo dei registi russi» dopo il suo Tre sorelle? «Insomma, è stato un vezzo di avvicinamento il mio, che non garantiva di per sé una buona messinscena, ma male non poteva fare e ha funzionato».

Intanto è arrivata Maddalena Crippa e partiamo per un tour di San Pancrazio. «Nell’ 84 fui invitato a Ostia antica con l’Orestea, che avevo messo in scena nella piccola Schaubühne: era troppo allettante per me portare quello spettacolo all’aperto e in una simile cornice» racconta Stein mentre camminiamo fra roseti, alberi da frutto e cornacchie che stanno assaporando le ciliegie e che lui scaccia con improvviso furore. «Bestiacce, via, sempre a mangiarmi la frutta! Bah, ancora oggi continuo a incontrare gente di teatro, o che ama il teatro, che ha visto quello spettacolo. E’ stato molto importante per me. Così nell’87 quando mi hanno invitato a Roma per tenere seminari all’Università, ho accettato subito, anche perché volevo lasciare la Germania. Ho incontrato Maddalena e sono caduto in questa trappola italiana».

Siamo arrivati alla sala prove, un capannone dove possono entrare, per motivi di sicurezza, non più di novantanove persone. «Novantanove possono bruciare, cento no» dice scherzando. E’ qui che, nel 2009, ha rappresentato le dodici ore dei Demoni di Dostoevski dopo la clamorosa rottura con lo Stabile di Torino, altro spettacolo memorabile che non ha smesso di girare il mondo. «Lo hanno visto finora circa venticinquemila persone» dice. Ed è sempre in questo capannone che ogni anno in ottobre gli amici vengono riuniti per la festa dell’olio, quando alla fine della raccolta gli Stein offrono una grande cena e uno scampolo di spettacolo, un concerto di amici musicisti, Maddalena che recita poesie, Peter che canta i blues accompagnandosi al banjo, e si mangia e si balla fino a tardi in un clima di letizia governato dalla fisicità di lei e dal sobrio cipiglio di lui.

Ma, insomma, perché questo caratteraccio, questa inclinazione teutonica ad accendersi per ogni piccolo dettaglio che non va? «Ho fama di essere un duro, ma non è vero per niente. Come sempre la fama si crea intorno a piccoli ridicoli particolari. La questione è che io dico sempre le cose che mi passano per la testa, dico quel che so, che sento. Sarebbe esagerato sostenere che dico la “verità”. Ma insomma non mento. Non sono diplomatico. E questo crea inimicizie. Bah, volendo dirla tutta, il problema sostanziale è che non sempre mi passano per la testa cose intelligenti!»

Il buffo è che non si può ridere alle sue battute perché lui parla comunque in modo serissimo e viene il dubbio che potrebbe non prenderla bene. Non mi resta che chiedergli l’inevitabile. Che cos’è il teatro?

«Spazialità. Mimo. Un gioco che si fa con gente viva davanti ad altra gente viva. Un’esperienza ogni volta unica,  irriproducibile, che parla ai sensi, al corpo, alle emozioni. Il contrario degli schermi che vanno oggi per la maggiore e uccidono la concentrazione che viene avvertita come noia. Se affami, come si fa in Italia, il teatro, indebolisci un’esperienza che non è solo artistica, un’esperienza che è, soprattutto, fortemente umana».

 



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