Rafael Spregelburd al Festival di Spoleto (dal Foglio, 24/6/11)

Rafael Spregelburd al Festival di Spoleto (dal Foglio, 24/6/11)

 

Spregelburd in una foto di Marcos López

Primo: leggere “Eptalogia di Hieronymus Bosch” di Rafael Spregelburd, volume uno e due, editi da Ubulibri. Ne proverete, oggi rarissimo, un senso di spaesamento, la vertigine da nonsense che però oscuramente vuole dire qualcosa d’imprescindibile, la nostalgia di un’avanguardia carica di intenzioni stravaganti magari utili, la pista di un percorso labirintico, ma non borgesiano e araldico, nulla di riconducibile tanto meno ai nostri Calvino o Manganelli. Sono perfettamente consapevole, con questo, di aver perduto per sempre alla causa la gran massa di lettori in cerca di ripetitività e conferme, ma qui si vale la nobiltà di lettori strambi e “assolutamente moderni”, nonché amanti del teatro.

Secondo: chi è Rafael Spregelburd? E’ un attore e un drammaturgo prolifico, saggista e traduttore. Nato nel 1970 a Buenos Aires dove vive con  moglie (o compagna), anche se è sempre in giro per il mondo. Molto simpatico e disponibile, a giudicare dal rapido e puntiglioso scambio di e-mail che abbiamo avuto per l’intervista che segue. Attore anche cinematografico, e di bell’aspetto, da maschio latino ironico con qualcosa di perverso, diciamo fra George Clooney e Antonio Banderas. Attore assai bravo (e qui, non contenta di un’acclamante critica internazionale, riporto il giudizio entusiasta di amici argentini che hanno visto il suo ultimo strapremiato film da protagonista, “El hombre de al lado” di Mariano Cohn e Gaston Dupràt).

Terzo: come autore di teatro Spregelburd (essendo argentino la g del nome è piuttosto pronunciata come un k un po’ aspirato) è stato paragonato nientemeno che a Harold Pinter. E’ anzi ormai chiamato da tutte le parti “il Pinter tropicale” dopo che la sua traduttrice e regista italiana, Manuela Cherubini (anche curatrice dei due volumi della Ubulibri) ha inventato la definizione.  Ma non è subito evidente il paragone, sembrano anzi mondi molto distanti. Approfondiremo.

Quattro: “La modestia”, una delle sette opere che fanno parte del disegno generale di “Eptalogia di Hieronymus Bosch” ispirate alle tavole del pittore fiammingo sui peccati capitali, ha inaugurato ieri, 24 giugno, alle 17 al Caio Melisso nello Spazio Carla Fendi, il Festival di Spoleto per la messinscena di Luca Ronconi e del suo laboratorio Santacristina con gli attori Francesca Ciocchetti, Maria Paiato, Paolo Pierobon e Fausto Russo Alesi. Ci sarà una replica oggi alle 16. Un’occasione per conoscere, dove più gli compete e cioè sulle assi di un palcoscenico, questo autore tradotto in undici lingue e rappresentato in oltre quindici paesi che vanno dalle Americhe all’Europa. In Italia qualcuno avrà già avuto modo di incrociarlo l’anno scorso al Napoliteatrofestival e poi a Roma con la colorata soap opera teatrale “Bizzarra” (premio Ubu), trenta ore di spettacolo e quarantacinque attori, regia della Cherubini (cui si deve anche nello scorso aprile una regia milanese della stessa “Modestia”), storia a episodi sulla crisi economica argentina e le sue ricadute su diversi destini sociali. E sempre a Roma, l’ottobre scorso fu la volta di “Todo”, regia dello stesso autore, che dissacra la famiglia, ribalta l’illusione della libertà, denuncia la mercificazione dell’arte. Quest’anno in marzo, a Milano, Milena Costanzo e Roberto Rustioni hanno rappresentato con successo un’altra divertentissima pièce del drammaturgo argentino, “Lucido”, mentre l’attuale edizione del Festival delle Colline Torinesi (3-23 giugno) ha presentato “La cocciutaggine” testo conclusivo della Eptologia che andrà ad Avignone, recitato in quattro lingue, regia di Marcial Di Fonzo e Elise Vigier. Tripudio critico.

All’inizio i sette testi dell’Eptologia dovevano essere brevi, ma poi, proprio dalla “Modestia” in avanti il materiale è lievitato fra le mani di Spregelburd e sempre di più i suoi lavori si presentano come ipertrofici e mettono a dura prova i realizzatori per le scene che si svolgono spesso in contemporanea, gli attori che entrano ed escono dai panni di un personaggio per entrare in un altro, la presenza di fantasmi, naturalmente senza catene, ma molto domestici, da tinello, cosicché è difficile capire che di fantasmi si tratta, lo straniante criterio di spazio e tempo totalmente saltati che mette a rischio anche l’intelligenza della trama. «Ma non è la trama importante» avvisa Luca Ronconi. «La trama in Spregelburd è sempre nascosta. Quel che conta è il nesso sotterraneo fra storie parallele, la schizofrenia dell’umanità contemporanea, la bilocazione permanente dei personaggi rispetto a se stessi e al mondo».

Ed ecco come spiega l’autore l’inafferrabilità dei suoi personaggi, la loro doppia se non tripla identità. Dice innanzitutto che il concetto stesso di personaggio è una “trampa”, una trappola, un’insidia. «Perché il personaggio» dice «è un’istituzione che ha attraversato significative mutazioni nella lunga storia dell’arte teatrale. La sua irruzione come asse portante di tutto il racconto teatrale forse ha avuto a che fare con l’apparizione della psicanalisi in quanto scienza più o meno esatta. Ma non è l’unico fondamento su cui costruire teatro. Personalmente credo in attori che incarnino situazioni, attori in grado di abitarle queste situazioni allo scopo di far funzionare il linguaggio ma con tutto lo spaesamento che sempre sperimenta l’essere umano. Insomma non m’interessa il personaggio come ‘personalità’, come attrezzo limitato di un sistema ‘che somigli alla realtà’. I personaggi, per meglio dire gli attori, sono forze poetiche; funzionano come il colore rispetto all’arte plastica, come il silenzio e il contrasto rispetto alla musica. Del resto l’identità delle persone non è fissa. Io stesso mi trovo ad assumere identità multiple nella vita quotidiana. Sono, secondo le situazioni marito, figlio, amante, straniero, artista, cittadino, eretico, e tutto questo sta dentro la stessa astrazione che chiamo ‘io’. Perché non dovrebbe valere anche per i miei personaggi? Evito di farne degli archetipi. Devono invece essere una scatola delle sorprese permanente per gli spettatori, proprio perché così sono le persone: caotiche, instabili, imprevedibili, passionali».

Luca Ronconi

E veniamo alla faccenda del “Pinter argentino” definizione che non convince, per esempio, Ronconi: «Pinter si rivolge a un pubblico che riconosce i codici tradizionali del teatro, Spregelburd li sovverte come autore di un’epoca in cui i vecchi riferimenti sono saltati e la realtà è insieme globalizzata e frammentaria come mai prima, in cui Male e Bene si confondono e a tenere insieme il tutto, paradossalmente ma coerentemente coi tempi, c’è un atteggiamento non disperato, ma ludico».

E che ne pensa lo stesso Spregelburd? Lì per lì liquida la cosa come “buena broma”, scherzo, battuta efficace che deve «all’immaginazione sempre lucida (e ludica) di Manuela Cherubini», poi la butta in understatement: «Ha sicuramente a che fare con una questione oggettiva: sono traduttore di Pinter in Argentina e America Latina e così ho dato senz’altro impulso alla diffusione della sua opera. Poi ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente quando ho messo in scena una sua commedia…» Alla fine ammette: «Beh ci deve essere naturalmente anche qualche ragione più profonda per un paragone del genere. Per esempio: tanto nell’opera del grande autore inglese come nella mia si trova un uso ossessivo del linguaggio come creatore di realtà, segno delle dinamiche di potere, conseguenza dell’immaginazione. Effettivamente mi identifico con questo aspetto politico del testo in Pinter: non ci accomunano i temi, ma il modo in cui i temi denunciano che la realtà intera è una costruzione di linguaggi. Da cui consegue che il potere deriva dall’uso pubblico dei significati e delle immagini. Forse la battuta corretta sarebbe che ‘Spregelburd è una specie di Pinter tropicale’. Nei miei testi le parole e le situazioni si moltiplicano come in una giungla. Laddove Pinter scrive ‘pausa’ o ‘silenzio’ io metto ‘vocìo’ e ‘rumori vari’».

Non essendo in realtà la sua opera simile a nessun’altra e iscrivendosi a tutto diritto, che piaccia o meno, nella categoria del Nuovo, viene la curiosità di sapere che rapporti intrattiene da un lato con i classici, dall’altro con la contemporaneità. «Non intrattengo quasi nessun rapporto con il passato teatrale» è la risposta. «La mia unica relazione con questa professione è il dialogo che stabilisco con le opere dei miei contemporanei, il teatro della mia epoca, le cose che posso vedere, confrontare e dibattere. Il teatro non è letteratura: bisogna assistervi. Leggerlo è un’esperienza parallela, non specificamente teatrale. Vivo a Buenos Aires, una metropoli dall’attività di spettacolo unica al mondo (sono oltre trecento le sale di teatro indipendente, tutte attive a diversi gradi di offerta). Non è che io non legga i classici, ovviamente, però quel che ne capisco è la parte letteraria non il potenziale scenico. Amo moltissimi contemporanei argentini, da Daulte a Kartun a Pensotti e fra gli stranieri, oltre Pinter, Fassbinder, Stoppard, Ravenhill, Sara Kane e molti molti altri».

Al teatro si è dedicato per caso. In attesa di iscriversi senza convinzione all’università, s’iscrisse invece a un corso di recitazione (come fa in Argentina un sacco di gente, anche senza fini professionali). Poi a diciannove anni compose una commedia, che ora considera “bastante mala”, una schifezza insomma, ma che vinse un premio nazionale. E a partire da questo cominciò a pensare che le sue «responsabilità verso il teatro fossero maggiori» di quel che aveva creduto fin lì.

Non senza una punta polemica, lo ammetto, gli domando perché lui, come tanti altri autori e registi contemporanei, sente il bisogno di tenere inchiodata a teatro la gente per un numero inverecondo di ore e se non è un modo per far scappare il pubblico. (“La modestia” nell’allestimento ronconiano di Spoleto dura un po’ più di due ore e mezza, ma è solo un segmento dei sette che compongono l’Eptologia che idealmente dovrebbe essere rappresentata di seguito). «Lo spettacolo monstre non è una necessità reale. Ma sono un autore che ama coltivare la complessità e nella complessità niente è semplice. L’evidenza non appare tale, ma avvoltolata in vari strati di tessitura apparentemente inservibili. Per ottenere l’illusione della complessità (non della complicazione che è un’altra cosa) le opere hanno bisogno di tempo, di una grande quantità di dati, di situazioni sovrapposte, ricche di problematicità. “La stupidità” è la più lunga pièce dell’Eptologia e una delle più rappresentate con successo! Detesto i pregiudizi sulla durata e mi ci oppongo a volte anche prolungando i tempi. A Buenos Aires sostengono che il tempo ideale per uno spettacolo teatrale è un’ora! Fesserie. Il pubblico si annoia se ci sono tempi morti, mancanza di sintesi. Ma sintesi non vuole dire brevità. Ci sono spettacoli lunghi che, grazie alla loro velocità, al costante cambio del punto di vista, del ritmo, mantengono intatta la sorpresa di minuto in minuto».

Rafael Spregelburd

L’Eptologia è basata sul ribaltamento, utilizza un peccato tradizionale (e Spregelburd precisa: «Tutti i peccati sembrano essere l’esagerazione di un’attività assolutamente umana e naturale») per ribaltarlo in un peccato “nuovo” («un modo per mostrare quanto convenzionale sia la canonizzazione della morale»). L’“Inappetenza” si burla della lussuria, “La stravaganza” esplora l’invidia, “La modestia” ribalta la superbia, “La stupidità” disintegra l’avarizia, “Il panico” emerge dall’accidia, “La paranoia” nasce dalla gola, “La cocciutaggine” è la deriva attuale dell’ira. «Ognuno di questi testi» aggiunge l’autore «utilizza un gioco, un procedimento linguistico diverso e unico. Nella ‘Modestia’ si raccontano due storie insieme: una in un passato un poco remoto, a Trieste, alla vigilia dei conflitti etnici dei Balcani, diciamo un secolo fa, quando il concetto di straniero era legato a una frontiera debole, fissata per sbaglio. Nell’altra storia siamo a Buenos Aires, nel presente, e assistiamo a uno strano oscuro caso semi-criminale. Che rapporto ci sia fra le due storie lo deve capire lo spettatore, perché io gli complico continuamente la soluzione saltando da una situazione all’altra con la complicità degli attori. E’ uno dei miei pezzi favoriti: la soluzione non dipende dalla cultura del pubblico, ma dalla sua condiscendenza a entrare nel gioco, secondo un’attività di zapping che è alla portata di tutti, che tutti fanno in continuazione quando stanno davanti al televisore».

Ora resta da capire cosa c’entrino modestia e superbia.

«Sappiamo che l’idea contemporanea di superbia (credersi superiori agli altri) non è la stessa che la fede cristiana castigava in passato (credersi uguali o superiori a Dio). Il peccato di oggi dipende dalla relazione, non si manifesta in solitudine. Perché qualcuno davvero possa credersi superiore ai suoi simili bisogna che anche questi gli attribuiscano la qualità. La superbia oggi non accade senza testimoni. Il ribaltamento che ne faccio in modestia, mi porta a confrontarmi con un concetto molto più confuso. Perché, per esempio, tendiamo a suppore che l’umiltà abbia connotazioni positive rispetto alla modestia che le avrebbe negative? Con mia grande sorpresa in ogni lingua in cui la pièce è stata tradotta esistono le due parole per esprimere lo stesso concetto e in tutte le lingue c’è un margine di ambiguità fra i due sensi».

Spregelburd, evidentemente, non vuole chiarire troppo, visto che l’oscurità fa parte del suo gioco e, in generale, delle condizioni disgraziate dell’umanità contemporanea, esperta di ogni tecnologia, manipolatrice dei segreti biologici, lanciata a spadroneggiare persino sulla morte e sempre meno abile a governare il suo sapere. Dunque non insisto per venire a capo di qualcosa di cui, immagino, pure la regia di Ronconi non mi fornirà la chiave, ma ulteriori  emozioni, visto che ora afferma: «Il linguaggio di Spregelburd è molto semplice, ma inserito in una struttura complessa».

Non resta che andare a Spoleto a vedere lo spettacolo e sperare che questo articolo non dispiaccia all’autore argentino. Ho ben chiare le sue parole riportate da Manuela Cherubini nell’introduzione ai volumi della Ubulibri: «Tutto ciò che sento dire di me mi genera una forte attitudine alla confutazione, dettata da uno spirito di permanente mobilità, di negazione a una classificazione entomologica».

 

 

 

 

 

 

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