CAMERA CON VISTA dedicata ai gialli (MobyDick, 30/7/11)
Estate, tempo di gialli. Non sono un’appassionata, anzi sull’argomento sono veramente naïve, basti dire che resto ancora ferma ad Agatha Christie e quanto mi concedo di vera passione meno remota non supera Georges Simenon. Però mi sono arrivati due polizieschi editi da Iperborea e, colpita dal fatto che l’elegantissima casa editrice di Emilia Lodigiani, dopo essersi permessa di bocciare quel successo planetario di Stieg Larsson (Uomini che odiano le donne, nel caso vi sfuggisse), si pieghi a due romanzetti di genere, mi sono messa a leggerli. Chissà che non possa ampliare i miei orizzonti. Dunque il primo s’intitola Il blues del rapinatore (185 pagine, 15,50 euro). L’ha scritto il danese Flemming Jensen, autore scandinavo dal nome non particolarmente difficile e questo, pur non essendo un suo merito, me lo rende simpatico. Poi, però, scopro che fa il simpatico di mestiere, sì un po’ alla Beppe Grillo, anche se per fortuna meno scatenato, uno che coniuga comicità e politica, e questo mi raffredda parecchio. Lo dico perché teniate conto che la mia è una lettura macchiata dal pregiudizio, oltre che dall’incompetenza. Il romanzo ha il tono di uno spiritoso monologo recitato su un palcoscenico che tenta di strappare la risata a ogni a-capo. Forse non c’è nessun male in questo, forse a molti sotto l’ombrellone farà piacere sbellicarsi dal ridere leggendo un giallo. Io sono tradizionalista e mi pare che il genere non vada contaminato più di tanto. Insomma, preferisco qualcosa che non mi spiazzi e di ridere nessuna voglia (detto fra noi, poi, non è il tono urlato di Flemming Jensen, che sta sempre lì a darti di gomito e a farti l’occhiolino che può conquistarmi).Così passo al secondo. E andiamo subito decisamente meglio (nomi impronunciabili a parte). Titolo: L’uomo con la faccia da assassino (190 pagine, 15,50 euro). Autore Matti Rönkä (è un maschio, nato nella Carelia finlandese nel 1959), volto noto del telegiornale che inventando il personaggio seriale di Viktor Kärppä ha dato una svolta al suo destino conquistando un vasto successo e numerosi premi. Kärppä non è un commissario, ma un investigatore privato a tempo perso, quando cioè non è lui stesso implicato in faccende losche di piccolo cabotaggio al servizio della mafia russa di Helsinki. E’ malinconico come da copione collaudato, impressionabile e romantico. Non porta la pistola per non farsi venire la tentazione di uccidere, ama la mamma lontana, sola ma parecchio tosta, e ha problemi con un fratello che non ha ancora deciso cosa fare di se stesso. Insomma possiamo identificarci facilmente con lui pur non avendo mai fatto niente di particolarmene avventuroso o vagamente malavitoso; poi questi tipi borderline che, da una parte sono poco raccomandabili, dall’altra assurgono, complice una buona trama, alla figura di eroi positivi funzionano meravigliosamente in libri di questo genere. Qui la storia muove dalla scomparsa di una ragazza. E’ il marito che la cerca, e non si sa se per copertura o per amore vero. Magari è stato lui stesso a farla a fettine e a metterla nel congelatore (ma il corpo, si scoprirà, non è di quella ragazza, respirate liberamente). Altro non dico, per non rovinarvi la suspense. Che è tanta, ben calibrata da un capitolo all’altro, intrecciata a un’immancabile storia d’amore per niente banale.
Detto questo, anche se non c’entra con la carrellata poliziesca, mi sono ritrovata davvero a mio agio, al cospetto col «piacere del testo» di barthesiana memoria, solo quando ho letto d’un fiato Genius loci (60 pagine, 9,50 euro) della olandese Hella Haasse, che era compreso nello stesso pacchetto di Iperborea: due brevi, bellissimi racconti dove passa la vita interiore dei personaggi, dove il gioco d’ombra e di luce degli stati d’animo chiarisce qualcosa di essenziale sull’esistenza, come mi piace faccia la letteratura. Dove si trova il ritratto indimenticabile di una madre rimasta sola, tratteggiato dallo sguardo impietoso e carico di senso di colpa di una figlia, che ha un’improvvisa rivelazione sulla propria infanzia, e sul difficile rapporto con la donna che l’ha messa al mondo. «Momenti di essere» li avrebbe definiti Virginia Woolf, quei momenti che accendono a pieno ritmo i motori di una narrazione.
Ma torniamo ai nostri assassini, poliziotti e cadaveri insanguinati. Lo scenario si addice al catalogo di Iperborea, eppure siamo in zona Adelphi e lo scrittore è l’immenso francesissimo Simenon, che però, come ben sanno gli appassionati, ha vissuto parecchio dentro una barca lungo la costa olandese. L’assassino (155 pagine, 16 euro) è del 1935. Ambientato fra Amsterdam e Sneek, paesino della Frisia, inscena un doppio omicidio di cui si conosce il responsabile già dalle primissime pagine. Una tecnica che Simenon governa a meraviglia: come tenere avvinto il lettore in un sostanziale immobilismo, aspettando che il cappio si stringa o si allarghi intorno al colpevole, mentre la vera punizione è la progressiva consapevolezza dell’inutilità del crimine compiuto, la sproporzione fra l’atto estremo e il risultato modesto. La vita del dottor Kuperus che in una botta si è liberato della moglie fedifraga e dell’amante, suo rivale al biliardo, è cambiata come sperava dopo l’assassinio? Certo può liberamente andare a letto con la servetta, può sperare di essere eletto presidente dell’Accademia del Biliardo, dove l’altro brillava assai più di lui. E con questo? I giorni scorrono lenti, i sospetti aumentano, la limitata società di provincia lo respinge in un gelato isolamento, la servetta ha un fidanzato che rovina la festa e un carattere che, nell’apparente sottomissione, ne fa una piccola manipolatrice e un grande personaggio. Prodigioso Simenon, ogni volta (tranne davvero pochissime eccezioni) si resta sbalorditi dalla sua profonda conoscenza della psiche umana, dai grandiosi risultati di una scrittura elaborata su umili elementi.