Camera con vista, la mia rubrica su Liberal (6/11/11)

Camera con vista, la mia rubrica su Liberal (6/11/11)

Ah, i poeti! Meno male che ci sono loro a conservare intatta un’allure sobria e intensa, a riflettere sulla vita e sulla morte, sul dolore e sull’amore, sulle parole e sulla lingua, senza svendersi e agitarsi per scalare le classifiche, senza affidarsi agli editor per trasformare i testi in banalità commestibili, masticate e rimasticate. Evviva i poeti che non scrivono libri gialli, neri, rosa, ma umili versi pensati e lavorati per giorni, mesi, anni forse, poeti che si prendono tutto il tempo per dare forma a un pensiero, a un’emozione. Sono grata alla giuria del Premio Nobel che mi ha fatto di nuovo scoprire un poeta che non conoscevo, Tomas Tranströmer (come era successo nel 1996 con la grandissima Wisława Szymborska). Da quando è stata data la notizia, il 6 ottobre, e ne ho letto sui giornali, alcuni suoi versi mi sono entrati nella testa e non mi hanno lasciata più: «C’era un funerale/ e io sentivo che il morto/ leggeva i miei pensieri/ meglio di me». Quanta verità in queste piccole quattro righe. Le informazioni, tante, compresse in pochissimo spazio, arrivano come frecce a destinazione, da cuore a cuore. La comprensione passa attraverso i sensi, attraverso una logica inconscia, naviga nel sangue, s’arroventa, esplode di significato. Siamo a quel funerale, di un morto che non è nostro ma lo diventa, un morto che è tutti i morti del mondo, ci conosce e sa quel che non sappiamo di noi stessi. Abbiamo paura di questa scoperta, perché abbiamo paura della morte. E siamo sconfitti e veri di fronte all’inesplicabile, all’inaccettabile, al nulla. Questo poeta, questo Tomas Tranströmer, non l’ha fatta lunga, né si è messo a filosofeggiare. Ci ha detto solo di un funerale, che non doveva essere il funerale di qualcuno che gli premeva. Un funerale qualsiasi, di un conoscente qualsiasi. Ed è questo che rende tanto più forte la sensazione di essere nudi di fronte ai morti, i morti qualsiasi, tutti i morti. Perché loro sanno quello che noi non osiamo nemmeno pensare, di loro e di noi stessi. Quante parole ho dovuto usare per spiegare quei brevi versi, e tante ancora potrei dire a commento. Ma la forza della poesia è nella sua contrazione, che è illuminazione: quell’esprimere tanto in un soffio e per spostamento.

«L’effetto della poesia è così forte e diretto, che per un attimo non esiste altra sensazione che quella prodotta dalla poesia stessa» leggo fra le pagine saggistiche di Virginia Woolf, ripercorrendole nella bella nuova raccolta (in parte inedita in Italia) curata da Liliana Rampello per ilSaggiatore col titolo (woolfiano) Voltando pagina. E’ proprio così: è difficile raggiungere un simile risultato con la prosa. A meno che non sia la prosa di un poeta. Ed eccomi a leggere allora Marina Cvetaeva, Le notti fiorentine, uscito da Voland in un’edizione riveduta e corretta, rispetto a una precedente del 1983,  sia nella traduzione sia nell’introduzione, l’una e l’altra di Serena Vitale. Nove lettere ispirate dall’invio da parte di un giovane amico editore di un omonimo libro di Heine che Cvetaeva avrebbe dovuto tradurre (ma non lo fece mai, pare). Lei, tanto per cambiare, si era innamorata di quell’amico e gli scrive per sedurlo. Ma lui si spaventa di tanta incandescenza e scappa. Un amore respinto, insomma, uno dei tanti cui il bisogno di mitizzare l’amato condannò Cvetaeva. «Povera me, che accanto a voi mi sento intorpidita…».

Marina Cvetaeva

«Siate vuoto finché lo vorrete, finché lo potrete – io sono la vita che non patisce il vuoto». «Sono lacerata da due tentazioni: voi e il sole». «Nessuno, eccetto me, ha avuto l’idea geniale (ingenua idea!) di soffrire per voi». Si conobbero ed ebbero una breve storia fra il giugno e il luglio del ’22 a Berlino. Si rividero qualche anno dopo e lei lo trattò con indifferenza, mostrando di riconoscerlo a stento. «Quanto eri, tanto oggi non sei più» concluse in una lettera non spedita, da lei stessa intitolata: Postfazione, ovvero: faccia postuma delle cose. L’amore aveva un senso se si trasformava in letteratura e Le notti fiorentine erano, finito l’amore, diventate subito un testo.

E’ pericoloso l’amore per le poetesse. Una, la bionda bellissima fiorentina Contessa Lara, al secolo Evelina Cattermole, fu uccisa nel 1896, a 47 anni, dal suo ultimo amante, il giovane Giuseppe Pierantoni, che non sopportava di essere lasciato da lei, nel suo appartamento romano di via Sistina dopo una notte di agonia per superficiali soccorsi medici.

Contessa Lara

La storia straordinaria di questa letterata e giornalsta che ebbe in vita un grande successo, circonfusa di scandalo e talento, e poi frequentata solo da cocciute femministe, viene raccontata da una preziosa introduzione di un’altra poetessa, Biancamaria Frabotta, e da Manola Ida Venzo, curatrice dell’interessantissimo volume L’ultima estate di Contessa Lara. Lettere dalla Riviera, edito da Viella. Una lettura avvincente come un romanzo rosa, e insieme la testimonianza di un genio femminile che nel nostro paese è stato colpevolmente trascurato, in questo caso come in tanti altri.

Ma mentre scrivo giunge la notizia della morte di Andrea Zanzotto, che aveva appena compiuto 90 anni (il 10 ottobre). «Mondo, sii, e buono; /esisti buonamente…» sono i primi suoi versi che mi vengono in mente con una stretta al cuore (che il mondo non è buono lo testimonia, una volta di più, un’altra morte – bestiale – dei giorni scorsi, quella di Gheddafi).

Andrea Zanzotto

Zanzotto era un poeta immenso, e una persona seria e dolcissima. Ho avuto la felicità di conoscerlo una trentina di anni fa e di subirne il fascino stralunato, irridente, affettuoso. Aveva anche una grande mente critica come dimostra un libricino, appena uscito da Nottetempo, Poesie sparse pubblicate in vita di un altro grandissimo della poesia, Paul Celan. Non sono fra i versi migliori dell’autore tedesco, ma l’introduzione di Zanzotto illumina, insieme, la poesia di entrambi. E per questo, adesso, per celebrarli tutti e due, cito questo passaggio essenziale: «Egli aggruma e smembra le parole, crea numerosi e impennati neologismi, sovverte la sintassi pur non distruggendone una possibile giustificazione fondante, usa fino alle estreme latenze il proprio sistema linguistico…» Zanzotto parla di Celan, ma anche di se stesso e della comune consapevolezza di muoversi ormai in una dimensione dove «non ci sono più né nascite né ritorni veramente salvifici». Eppure l’uno e l’altro sono salvi nel nostro profondo rispetto e nella nostra indiscussa ammirazione.

 

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