CAMERA CON VISTA (Moby Dick 24/12/11)
«A Natale regalate un libro». Ripetiamo volentieri anche noi questo spot pubblicitario. Ma il punto è: quale libro? Troppo facile precipitarsi in libreria all’ultimo momento afferrando l’ennesima proposta del marketing editoriale, i soliti primi in classifica, l’ultima riflessione giornalistica sui danni della politica, la mortifera elaborazione preelettorale del deputato o del sindaco, l’inutile ma tanto glamourous manuale di cucina. Facciamo invece uno sforzo e regaliamo un libro utile, nel senso un grande libro, uno di quei libri che possono davvero cambiare la vita, la testa, il cuore delle persone e che si danno per scontati, già letti, stranoti. Salvo poi entrare in una classe, magari di liceo classico o di un qualsiasi corso di scrittura affollato di laureati a spasso, e scoprire che: «Tolstoj? Chi era costui? Ah, sì, uno che ho letto da piccolo e che ha scritto una storia su una tizia che si buttava sotto a un treno…»
E allora cominciamo proprio da lui, dal più grande fra i grandi. Magari, visto che siamo a Natale, saltando d’un balzo la Karenina e Guerra e pace, per proporre un piccolo non tanto noto titolo, Il vangelo di Tolstoj (Quattroventi edizioni: sarà complicato trovarlo, ma senza un po’ di sacrificio che regalo natalizio è?), autentico manifesto della nonviolenza, annuncio di liberazione non in attesa del mondo soprannaturale, ma molto terrena. E’ la riflessione, partendo dalle beatitudini e dal discorso della montagna, «dalle perle» dei Vangeli cristiani epurati dalle contaminazioni, su un modo diverso di concepire la vita e la politica. Un libro durissimo contro il ruolo della Chiesa e le manipolazioni degli Stati, il libro di un uomo, uno scrittore, un pensatore, un essere tormentato, che cerca nel superiore insegnamento di un altro uomo, Gesù Cristo, il segreto di una convivenza umana possibile e degna.
Ho l’impressione che, nonostante il parlare che se n’è fatto in relazione a una nuova «rivoluzionaria» traduzione, quella di Renata Colorni che ha svolto un lavoro certosino di precisione fino a cambiare il titolo dell’opera monumento di Thomas Mann, La montagna magica (Meridiani Mondadori), ho proprio l’impressione, dicevo, che pochi si siano applicati a leggere o rileggere questo capolavoro della letteratura mondiale. Qualcuno (io fra questi) pur accettando le spiegazioni inoppugnabili di Colorni sui cambiamenti, si sarà addolorato a dover dire addio a quel titolo tanto musicale e fascinoso (La montagna incantata), i più fortunati che sanno il tedesco la leggano assolutamente in originale. Gli altri, se non vogliono spendere tanto, riusciranno a trovarla ancora (per esempio in Internet: ho controllato) nella vecchia dignitosissima edizione (traduzione di Ervino Pocar) Corbaccio. Ma insomma regalate (soprattutto ai giovani) questo romanzo epocale in cui il protagonista Hans Castorp, nel protetto universo di un sanatorio fra le montagne, passa attraverso varie iniziazioni per trovare un suo (precario) equilibrio. Ve lo spiego con le stesse parole di Mann, quando nel ’39, andò a raccontare la sua opera agli studenti di Princeton: «Fate il favore di leggere il libro sotto questo angolo di visuale: troverete allora che cosa sia il Graal, il sapere, l’iniziazione, quel ‘supremo’ che non solo l’ingenuo protagonista, ma anche il libro stesso va cercando». Anche con meno ambizioni lo si può leggere semplicemente per farsi attraversare per sempre dalla potenza di certe immagini: una per tutte, l’ingresso nella sala da pranzo del sanatorio di madame Chauchat, la seduttiva signora che strega Castorp, ogni volta lasciando che la porta a vetri sbatta dietro di lei a sottolineare il suo arrivo. Quello sbattere, come una musica grandiosa, risuonerà indelebile nelle vostre teste rendendo comprensibile, senza bisogno di spiegazione alcuna, cosa sia la grande letteratura.
Col titolo Autobiografia che può trarre in inganno, Adelphi ripubblica in un unico volume curato da Luigi Reitani, i cinque romanzi autobiografici dell’austriaco Thomas Bernhard, tutti relativi alla giovinezza e pubblicati in anni diversi: L’origine (Un accenno) del 1975, La cantina (Una via di scampo) del ‘76, Il respiro (Una decisione) del ‘78, Il freddo (Una segregazione) dell’81, Un bambino dell’82. Cito quest’opera per l’attualità della ristampa, ma di un autore come Bernhard si può leggere qualsiasi libro senza pericolo di sbagliare. E’ identico a se stesso sempre, la potenza della sua voce inesorabile – come la mancanza di a capo e di capitoli -, il respiro avvolgente del suo dire senza pause, la visione della vita e dell’uomo che illumina il buio, e solo quello, l’«ombra» junghiana insomma, odio, rancore, senso di umiliazione e sarcasmo che mai alleggerisce la tensione, ma di più la scandisce e precisa, ne fanno un autore unico e gigante, meravigliosamente letterario eppure impastato di verità assoluta. Eppure è lui il primo ad avvertire (nella Cantina): «Per tutta la vita ho sempre voluto dire la verità, anche se ora so che erano menzogne».
Farò un’unica deroga al principio che mi sono data di andare sul classico, per così dire, per segnalarvi il libro di un autore italiano, Osvaldo Guerrieri, dedicato a una città, Torino, attraverso i suoi illustri abitanti. Infatti il volume s’intitola I torinesi (Neri Pozza) ed è una galleria di personaggi, da Cavour a Macario, da Francesco Cirio a Helenchen König (la inventrice della bambolina Lenci), da Gianni Agnelli al magico Gustavo Adolfo Rol, all’oscuro fenomenale barone Marcel Bich a tantissimi altri. Tanti racconti leggeri e sorprendenti su glorie nazionali che abbiamo in tanti casi colpevolmente dimenticato e che ricostruiscono la storia di una città e in parte di tutta l’Italia. Anzi, ci sono pagine in questo libro che aiutano concretamente a capire da dove veniamo e che cosa possiamo forse tornare a essere. Voglio citare l’autore che traccia il ritratto di un suo personaggio: «Bich è stato l’uomo che ha rivoluzionato il XX secolo in silenzio, senza enfasi, tenendo lontani i giornalisti, i banchieri, i tecnocrati, i quali, ciascuno a proprio modo, avrebbero voluto ficcare il naso e allungare le mani su quel laboratorio di Clichy, appena fuori Parigi, dove fu creata la penna che ha cambiato il modo di scrivere dell’umanità e, successivamente, il rasoio e l’accendino che avevano nella formula ‘usa e getta’ la propria irrinunciabile caratteristica». Peccato che sia emigrato in Francia!