Sul viaggiare. Sand e Chopin a Maiorca (Il Foglio 31/12/11)
Perché viaggiare e non invece star fermi? E’ la domanda, credo, che si fa qualsiasi viaggiatore, nonappena, e capita in tutti i viaggi impegnativi, s’imbatte in qualche disavventura, che so: lo smarrimento di un bagaglio, il furto del portafoglio, un attacco di dissenteria, un albergo prenotato sulla base di confort che vengono disattesi, un simpatico compagno di strada incontrato per caso che si rivela un abile truffatore di turisti incauti, e peggio ancora, forse, il compagno di viaggio col quale siamo partiti che si smaschera lungo il cammino mostrando la vera identità di ineliminabile palla al piede. Non senza ragione la domanda di Bruce Chatwin Che ci faccio qui?, titolo dell’ultimo libro pubblicato in vita, sorta di antologia dei suoi temi, è diventato un tormentone da ripetere stile mantra quando ci ritroviamo lontani dalla terra natia in un posto ostile e inferiore alle aspettative, quando ci prende lo spleen del vagabondo-della-domenica che giocava al grande-viaggiatore e invece rimpiange il calduccio di casa sua, un letto comodo, il caffè ristretto o la pastasciutta.
Eppure, non c’è crisi economica che tenga, partire per mete lontane, possibilmente esotiche, è uno sport largamente praticato, magari lungamente sognato, accuratamente preparato, in gruppo o in ordine sparso, cui prima o poi cediamo tutti. «Quanto mi piacerebbe andare in India. O fare un safari in Africa. O arrivare al Polo Nord». Niente di più semplice ormai. Basta rivolgersi all’agenzia di viaggi giusta. Salvo il fatto che l’India, a meno di non restare chiusi nell’albergo a cinque stelle tutto il tempo, è pur sempre un posto scioccante e al Polo Nord fa un freddo cane e sarebbe meglio non avventurarsi nei Safari se il puzzo ferino ci dà il voltastomaco…
Ma insomma, tornando alla domanda «perché viaggiare e non invece star fermi», a un certo punto ho trovato l’inaspettata e articolata risposta in un libro. E, manco a dirlo, durante un viaggio. Il viaggio è avvenuto a fine estate nell’isola di Maiorca, alle Baleari. Il libro, Un hiver à Majorque è di George Sand. Cercarlo in italiano è impresa disperante anche se uno dei più autorevoli scrittori di viaggio, l’americano Paul Theroux, fino a un certo punto amico di Chatwin (poi hanno litigato, ma lo racconteremo un’altra volta) e suo coautore del dialoghetto Ritorno in Patagonia, sostiene che è uno dei libri di viaggio più agili e divertenti, malgrado l’astio e l’insofferenza che esprime, anzi proprio in forza di questi sentimenti negativi. Sì, perché un libro di viaggio non necessariamente deve tessere le lodi del paese che racconta e Un inverno a Majorca è il resoconto di una disfatta totale, geografica e sentimentale, che porta l’autrice a schierarsi anima e cuore dalla parte dei sedentari domandandosi: «Perché viaggiare se non ci si è proprio costretti?»
E la sua risposta è che a spingerci non è tanto il piacere di viaggiare, ma il partire in sé. Si chiede la Sand: «Chi di noi non ha almeno un dolore dal quale distrarsi o un giogo da scrollarsi di dosso?» Dunque si parte per chiudersi dietro una porta, più che per aprirne di nuove, si parte per noia e per disgusto, per rompere la routine, per fuggire da qualcosa. Altro che voglia di scoprire il mondo! E anzi, quando poi il mondo diverso si palesa sul serio, la maggior parte delle volte ci terrorizza e sconsola. Come capitò, appunto, a George Sand, andata a passare alle Baleari, insieme ai figli e al suo nevroticissimo amante Fryderyk Chopin l’inverno 1838-39, sedici anni dopo descritto nel suo elegante, intelligente libro demolitorio.
Sappiamo che la Sand, che si vestiva da uomo, fumava il sigaro, intrecciava amanti, possibilmente più giovani, come altre donne ghirlande di fiori, non aveva esattamente un buon carattere. Ma era dotata di uno spiccato senso materno e per il figlio maschio, Maurice, sarebbe andata in ginocchio sugli scogli. Per lui, adolescente malaticcio e malinconico, ma tanto portato per la pittura, decise il soggiorno nell’isola spagnola, che godeva di ottima stampa quanto a clima, paesaggi e cucina. Disdetta volle che Chopin, geniale quanto affetto da tisi e molto mondano, da lei conosciuto qualche tempo prima e sedotto con appassionata determinazione, le si mettesse alle costole implorando di partire con la scrittrice la quale, in quel capolavoro autocelebrativo che è l’Histoire de ma vie, riflette senza mezzi termini: «Era già abbastanza che me ne andassi da sola all’estero con due figli, di cui uno malato e l’altra esuberante quanto a salute e turbolenta, senza che mi accollassi anche il peso di un tormento amoroso e una responsabilità da medico». Stanno insieme da soli tre mesi, la convivenza maiorchina tirerà subito fuori il peggio di entrambi, destinati comunque a restare insieme otto anni.
Quando si conoscono, a Parigi, lei è una irresistibile trentatreenne già separata e nota per i suoi libri, gli atteggiamenti sfrontati e la turbinosa vita sentimentale (soprattutto la breve, altalenante, furibonda relazione con il poeta Alfred de Musset aveva messo a rumore la città); lui di anni ne ha sei di meno, è il fascinoso re dei salotti che intrattiene con la sua musica dolcissima e un’eccezionale abilità nei camuffamenti, la capacità tutta teatrale di creare personaggi diversi col semplice gesto di scompigliarsi i capelli, sciogliersi il nodo della cravatta. E’ un seduttore costantemente sedotto dalle donne, fra le quali non sa scegliere, innamorato com’è soltanto della mamma («unica passione della sua vita» secondo Sand). Così quando è lei a prendere l’iniziativa, lui cade in una trappola di attaccamento ambivalente e autodistruttivo. Per dirla con Colette, cedono tutti e due, a «un eccesso di charme». E’ un grande amore? George (in realtà si chiama Aurore) ha un’enorme ammirazione per il musicista, per l’uomo i soliti sentimenti materni che la fanno presto sentire delusa e inappagata. Fryderyk è un bambino capricciosissimo che vuole tutte le attenzioni e, quando cominciano a mancargli, diventa insidioso, geloso, manipolatore. Ma questo succederà verso la fine della relazione. A Maiorca sono ancora innamorati l’uno dell’altra, sebbene precipitati in un menage stressante, in un ambiente ostile.
Cos’ha l’isola di così ripugnante da meritarsi un libro intero contro? A percorrerla oggi è fin troppo accogliente, ridente, avvolgente. Fa molto caldo, troppo caldo ancora a fine settembre. Se ne lamenta anche la Sand che vi arriva in novembre e poi dovrà affrontare per tutto l’inverno giornate fredde, ventose, piovose che sapranno solo irritarla. Ai maiorchini dell’800, che non sono gli abili affaristi contemporanei arricchitisi col turismo, ma contadini semplici e bigotti, la coppia artistica e irregolare dalle pretese assurde in un ambiente rurale, suscita sospetto e antipatia. Sand arriverà a paragonarli a scimpanzè, dirà che puzzano di olio rancido, come tutto in giro, che sono ignoranti e maleducati. Il figlio è malato, la figlia ribelle, Chopin isterico (la psichiatria l’avrebbe poi definito «schizoidale e psicoastenico». Povera George! Il compositore, che ha preteso troppo da se stesso, si sente isolato e incompreso, gli vengono visioni spaventose, vede i fantasmi, delira che sono tutti morti, che i monaci della certosa dove sono ospiti, in celle arredate con sobria dignità borghese, si aggirano, secondo lui, nottetempo, per i lugubri portici del chiostro e se Sand con i figli si attardano in passeggiate nei dintorni strepita che non torneranno a casa mai più, si agita e si preoccupa oltremisura per poi accoglierli catatonico al ritorno, quasi fossero essi stessi delle apparizioni infernali. Possiamo immaginare l’allegria che questi inquilini inquieti hanno sparso fra i monaci sgomenti.
Per fortuna c’era la musica. Racconta Sand nell’Histoire: «Lì compose le più belle di quelle brevi composizioni che modestamente chiamava preludi, e sono capolavori». Alcuni sono funebri, legati alle sue spaventose visioni, ma «altri sono malinconici e soavi, ispirati, nelle ore di sole e di benessere, dalle risate dei bambini sotto le finestre, dal suono lontano delle chitarre, dal canto degli uccelli fra le foglie umide, dalla vista delle roselline pallide sbocciate nella neve». Da una goccia d’acqua… La musica lo possedeva totalmente, era il suo demone, il centro dei suoi interessi, felicità e tormento infinito, perché se sorgeva spontanea dentro di lui, come traduzione diretta dei suoni della natura in pensiero musicale, poi la pagina veniva corretta e massacrata per giorni, per tornare magari, alla fine, al punto di partenza.
Ho nella testa proprio il preludio detto La goccia d’acqua mentre mi aggiro nelle stanze della Real Cartuja de Valldemossa, sulla spettacolare Sierra di Tramontana, a pochi chilometri da Palma di Maiorca, domicilio coatto di George e Fryderyk, bloccati lì da una serie di impedimenti come le condizioni atmosferiche e vari malanni che afflissero l’uno via l’altro i componenti del gruppo in quel micidiale inverno. Pensare che un simile capolavoro è stato composto su questo modesto pianoforte, addossato al muro della cella n.2 della certosa, così come si trovava nel novembre del 1838, fa un certo effetto. Sullo strumento un candelabro a quattro candele, unica fonte di luce probabilmente di pomeriggi e sere lunghe e gelide. Scriveva Chopin a un amico nel dicembre di quell’anno: «La mia cella in forma di grande bara ha un’enorme volta polverosa. Davanti alla finestra un letto pieghevole…» Eppure la finestra dava su un grazioso giardino con una fontana centrale, alberi e fiori. Ma i fiori li vedo io adesso, fiori di un’estate prolungata, che in inverno spariscono. Ai tempi era l’orto di un monaco certosino. In un’altra cella, la n.4, però, c’è un altro pianoforte, e questo è il suo, di Chopin, un Pleyel atteso con immaginabile ansia. «Il mio pianoforte non è arrivato ancora… sogno la musica, ma non la faccio perché qui non ci sono i pianoforti. E’ un paese selvaggio in questo senso…». Ma poi, un pianoforte saltò fuori, come abbiamo visto, e lui vi si adattò per buttar giù le composizioni che avrebbe portato a termine sul Pleyel, finalmente «arrivato nelle migliori condizioni» come lo stesso compositore si affrettò a scrivere in un’altra lettera esposta nel piccolo museo.
Quando abbandono la certosa nella testa mi passa, non più Chopin, ma un motivetto leggero di Lucio Battisti: «Si, viaggiare, evitando le buche più dure, senza per questo cadere nelle tue paure…». La lingua batte sempre sugli stessi tasti, allora. Il viaggiare anche qui legato a paura dell’imprevisto, dei pericoli, anche se la canzone si conclude in tono sereno: «con coraggio, gentilmente, dolcemente viaggiare..» Penso che anche Bruce Chatwin si trasformò in viaggiatore di professione per un atto di coraggio, per sfuggire a qualcosa che non gli piaceva piuttosto che per improvvisa attrazione per la lontana Patagonia. Voleva cambiare mestiere, non ne poteva più di collezionismo, aste e Sotheby’s presso cui lavorava guadagnando quel che voleva; ne aveva abbastanza di quadri osservati troppo da vicino: preferiva alzare lo sguardo verso l’orizzonte, quello antico dell’Afghanistan, quelli sterminati africani, quelli vuoti della Patagonia. «Il vero viaggio è avere nuovi occhi» diceva Proust che non si è mai mosso dalla sua stanza. Ma Chatwin aveva addirittura perso la vista (psicomaticamente) per trovare la forza di andarsi a cercare due occhi nuovi sul campo. E se per Cesare Pavese «viaggiare è una brutalità», per Jack Kerouac «la strada è la vita». E, visto che si torna sempre al punto di partenza, su tutti ha ragione probabilmente Charles Baudelaire, in parte d’accordo con la contemporanea George Sand: «I veri viaggiatori partono per partire e basta».
Forse allora, in definitiva, il problema della scrittrice francese è che al viaggio, e a quel viaggio a Maiorca in particolare, chiedeva troppo. «Quanto a me» scrive ancora in Un inverno «mi sono messa in viaggio per soddisfare un bisogno di riposo». Sempre a corto di tempo cercava «un eremo silenzioso, isolato, dove non avrei avuto né biglietti di cortesia da scrivere, né giornali da leggere da cima a fondo, né visite da ricevere». Un posto, insomma, dove sarebbe «rimasta in vestaglia tutto il giorno» e «le giornate avrebbero davvero avuto dodici ore». Non si può dire che la permanenza alla certosa di Valldemossa, in questo senso non l’abbia accontentata… Per quanto poi, a percorrere i nomi di altri celebri turisti entusiasti del posto, le sue idiosincrasie acquistano sfumature esagerate e persino un po’comiche.
A pochi chilometri dalla Real Cartuja, per esempio, c’è il grazioso paesino di Deià dove il poeta e romanziere inglese Robert Graves stabilì la sua dimora dalla fine della Prima Guerra Mondiale alla fine dei suoi giorni (7 dicembre 1985): una grande casa comoda, moderna, luminosa, circondata di verde e di fiori, ereditata dai suoi figli, che vivono ancora qui, e adesso museo. Fu Graves a convincere Gertrude Stein al viaggio scrivendole: «Se puoi resistere al paradiso vieni a Majorca». E la Stein non se lo fece dire due volte: arrivò con l’inseparabile Alice Tocklas e rimase un intero inverno che non risulta essere stato sgradevole come quello della coppia Chopin-Sand. Certo era passato un secolo, i majorchini si erano abituati ai turisti e alle stranezze degli intellettuali. Così anche D.H. Lawrence e sua moglie Frieda non ebbero di che lamentarsi dal loro soggiorno nell’isola. Tantomeno Albert Camus. Però la sua mamma era di Minorca e in un diario del 1935 annota (inevitabilmente?) che la luce di Majorca lo fa «sentire a casa».
A questo punto, per dovere di cronaca, dobbiamo anche dire che, una volta tornati a Parigi, Sand e Chopin non vissero sette anni propriamente di idillio. Che avessero due caratteri inconciliabili, che il soggiorno maiorchino fosse riuscito a sabotare per sempre il loro amore, procedettero fra alti e bassi, stanchezze, ripicche, litigi, tradimenti e malignità, in cui entrò anche la figlia di George Solange (in dispetto alla madre, civettava con il musicista) fino all’amara conclusione, riassunta dalla scrittrice in modo lapidario: «Fra noi c’erano persone cattive». I viaggi dunque non c’entravano più. Semmai c’entrava la considerazione che chiude l’Histoire, largamente condivisibile: «Non c’è felicità per nessuno. Questo nostro mondo non è fatto per la soddisfazione di piaceri personali». E il resto, si sa, è illusione.