Grande mostra di Ruggero Savinio (dall’Unità, 12/4/12)
In un ritratto che gli fece lo zio Giorgio De Chirico nel 1940, vediamo Ruggero Savinio a sei anni, pensoso come se già stesse meditando sulla parte d’ombra, notturna della vita. I grandi occhi scuri, malinconici, sono già quelli di oggi, occhi che in un altro ritratto, fattogli nel ’50 dal padre Alberto Savinio, fratello minore di De Chirico, diventano più penetranti e gravi, molto diretti e un po’ interrogativi. Nell’elegante signore che ho di fronte adesso quegli occhi sono allontanati dagli occhiali, ma solo un poco, e la bocca, come nella lontana infanzia, è ancora serrata in una specie di broncio che non si scioglie nemmeno quando sorride. Eppure un importante progetto si è realizzato: la grande personale alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, Percorsi della figura, aperta fino al 27 maggio, che raccoglie sue opere dal ‘62 a oggi.
«Non è stato semplice ritrovare quadri di cui avevo perso le tracce» spiega “il principe Ruggero”, per citare ancora una volta il padre nella chiusa di Casa “la Vita” non potrei, effettivamente, pensare a pittore più principesco di lui nei modi, nell’essenzialità dei gesti, delle parole). «Ho spesso lavorato per temi e mi premeva fossero il più possibile, se non tutti, rappresentati».
Un percorso, il suo, che si è sviluppato controcorrente. Figurativo quando trionfavano avanguardia, astrattismo, arte povera. Ma un figurativo che non aveva niente a che vedere con il neorealismo in cui «entrava molto la politica». E non che lui fosse apolitico: «Ero di sinistra, ma non mi sono mai iscritto al Pci e questo mi nuoceva. Ma sono sempre riuscito a vivere di pittura». E poi: «Mentirei se negassi che c’è stato un periodo in cui ho sentito molto il fastidio di essere un figurativo mentre sembrava legittimo solo l’astratto». Però non per questo ammirava Guttuso, che anzi «nella mia giovinezza mi appariva un esempio da evitare. Solo col tempo ne ho riconosciuto la grossa statura».
I suoi riferimenti erano piuttosto Tàpies, Dubuffet, Fautrier, e fra i maestri Bonnard e Munch che diceva: «Il pittore non dipinge quel che vede, ma quel che ha visto», tanto per sistemare una volta per tutte il rapporto arte/realtà. «Poi ci sono destini molto positivi, come quelli di Balthus, Bacon, Lucian Freud, che sembrano venir fuori solo da se stessi». Mentre lui, che è cresciuto alla scuola di due geni di casa come il padre Alberto e lo zio Giorgio, che rapporto ha avuto con loro? Quanto gli è pesata questa parentela? «La prova di quanto pesino nel mio destino è che ancora oggi, che ho 77 anni e una mia vicenda autonoma riconosciuta, mi vengono ricordati. Io me la sono sistemata così: sono capisaldi, pietre miliari con cui tutti, non solo un figlio e nipote, devono fare i conti. Personalmente ho imparato molto da entrambi, anche se nessuno dei due era un didatta, ma erano incoraggianti. Mio padre mi lasciava un angolo del suo studio per lavorare e negli anni ’50 andavo a studiare nello studio di De Chirico che mi metteva a fare copie di pitture antiche: imparavo insomma i segreti del mestiere ed ero il pretesto del ricongiungimento fra loro che si erano raffreddati per motivi familiari, non certo estetici. Così, anche se poi ho studiato lettere, ho sempre saputo che avrei fatto il pittore. Mi piaceva l’antimodernismo di De Chirico che m’istillava l’amore per la tradizione, e d’altra parte mio padre mi faceva capire le ragioni della modernità». E, come il padre, Ruggero ha anche scritto narrativa, 12 libri, «ispirati sempre all’autobiogafia e alla pittura, cioè alla mia vita».
Emanuele Trevi nel suo intelligente scritto sull’arte di Ruggero Savinio all’interno del catalogo della mostra, ricorda un aneddoto in cui De Chirico spronava il nipote: «Scurisci, scurisci. C’è sempre tempo a schiarire», quindi analizza come sia «il concetto di “ombra” ad accamparsi al centro della costellazione di metafore e concetti che costituisce la sua poetica» e parla di «andirivieni della figura tra luce e ombra, o tra forma e informe, o ancora tra somiglianza e dissomiglianza». Così, osservando i numerosi ritratti esposti, avvolti d’ombra o di ombre, si ha l’impressione di un dissolvimento o, viceversa, di un affiorare alla luce e all’identità delle persone raffigurate. O di fronte a uno dei quadri più belli, Rodi, autoritratto di padre con figli, la felicità del momento fissato (una spiaggia, un uomo disteso, due bambini che gli ruzzolano addosso) subito è minacciata dalla disintregazione del colore, del segno, persino nel viso che si sta disfacendo sotto i nostri occhi nella forma d’un teschio. E ancora, Giochi d’acqua, racchiude in una specie di bolla nera un piccolo universo col mare, la luna, la roccia, e la roccia sembra sul punto di prendere figura umana, ma l’idillio è racchiuso in un nero più grande, magmatico.
Sembra esserci in questo come un presagio sul futuro della pittura: «Ho sempre creduto nel gesto millenario, umano, del dipingere: un uomo, una tela, un pennello. Questa tradizione non è stata infranta dall’astrattismo, ma dalla civiltà digitale. E domani… chissà».