Recensione ad Antonio Debenedetti (da “L’immaginazione” gennaio/febbraio ’12)

Recensione ad Antonio Debenedetti (da “L’immaginazione” gennaio/febbraio ’12)

Antonio Debenedetti

C’è un racconto nella notevole nuova raccolta di Antonio Debenedetti, II tempo degli angeli e degli assassini, che probabilmente per l’autore non è il più significativo. È forse il più breve degli otto complessivi ed è l’unico che dà dell’umanità e della vita un’immagine minimamente rassicurante. S’intitola Sotto le ali del caso e vi s’incontrano due “angeli” (quelli del titolo?), mentre altrove abbiamo una variegata risma di “assassini”, che magari non hanno ucciso nessuno, ma hanno di certo almeno tentato di umiliare qualcun altro, massacrandone in qualche modo l’anima.

lo ho amato molto questo racconto. Vi passa, camminando aerea per Roma, Angela, una giovane suora dalla faccia che «sembrava fatta con la mollica di pane» e vi ozia Milo Latini, lettore di tarocchi di strada, belloccio ma indifferente alla propria avvenenza, con «la giacca direttamente sulla canottiera, senza camicia» e «un foulard blu notte a pallini bianchi, annodato intorno al collo». Che rapporto hanno fra loro questi due personaggi? Qual è il loro destino di personaggi, appunto? Nessuno, apparentemente. Un incrocio di sguardi che potrebbe promettere uno sviluppo, un’attrazione appena appena avvertita e che ognuno declina a modo suo, secondo i codici del suo mondo così distante da quello dell’altro. Suor Angela è attratta dai tarocchi, ma mai oserebbe cedere alla tentazione. Milo vorrebbe regalare a quella fanciulla leggiadra e pura una rosa bianca, ma poi non lo fa «per non rovinare tutto». E così resta sospeso nella tersa aria della vecchia città dei gladiatori «scolpita in una luce di cristallo» un amore possibile, ma non vissuto, «un amore di cui nessuno aveva l’indirizzo e che non sarebbe tornato mai più».

Ma ecco che, mentre sto scrivendo, mi chiama Antonio in persona e discutiamo un po’ al telefono dei suoi racconti e mi fa notare che di angeli nel suo libro ce n’è un altro: Sergio Cortopassi, di professione attore, protagonista assoluto de “Il criceto, la tartaruga e Anton Cechov”. E vero! Anche Cortopassi, «sinqle come la masturbazione, come un letto a una piazza e come l’io di quelle poesie che non chiedono nemmeno di venire scritte» è uno che non fa male a nessuno. Delle sue ambizioni e del metodo Stanislavskij non è rimasta che la capacità di restare immobile, travestito da Statua della Libertà, sotto lo sguardo, più stupito che ammirato, di un pubblico di passanti. E anche questo è un piccolo miracolo da angelo degradato e infimo, ma pur sempre creatura fatta con la pasta della bontà. Se non mi ero accorta da sola che Cortopassi, come suor Angela e Milo Latini, è creatura angelica nell’universo debenedettiano, è perché l’autore a lui riserva (ma non alla suorina e al lettore di tarocchi!) quel suo sguardo privo di misericordia, diciamolo pure: cattivo, sarcastico e diabolicamente critico, che è la sua cifra caustica, irriverente, persino divertente, in questi come nei suoi precedenti racconti. Debenedetti Antonio, infatti, ha dell’umanità un’idea molto poco romantica, priva di illusioni, sfrenatamente realistica, così realistica che per mostrarne tutta l’ignominia accede a un iperrealismo che sconfina nel metafisico, nel visionario, in un’oltranza tutta sua da capogiro.

lo, che sono a mio modo un’«anima candida» (con tutto il peggio che questa definizione comporta) mi trovo spesso spiazzata, irritata, offesa persino, dall’orrore psicologico degli esseri umani che la narrativa di Debenedetti mi rivela senza pietà e senza sconti. Di fronte a certe incarnazioni del diavolo, come “L’incantatore”, per dire, tal Saverio Jandoli «astro emergente d’una Roma intellettuale in bilico fra prima e seconda Repubblica», rifuggo piena di amarezza sperando che sia solo creatura letteraria là dove a ogni riga mi vedo costretta ad ammettere che meglio di come fa Antonio Debenedetti non si potrebbe descrivere l’abiezione esistenziale e intellettuale di un seduttore narciso e arrivista, capace di triturare esistenze ed equilibri altrui al solo scopo di esercitare un suo particolare primato: quello di poter insudiciare ogni cosa (donna) che tocca quanto è sudicia e irrecuperabile la sua propria essenza, morbosa e priva di ogni eroica grandezza anche nel male. E “L’incantatore” è senza dubbio un apice in questa raccolta, che per altro non conosce cadute, dove si celebra la vendetta, ancora una volta iperrealistica o metafisica che dir si voglia, di una vittima, Wilma, sul corrotto protagonista. Non sappiamo se Wilma è se stessa in carne e ossa o una visione di Jandoli o il diavolo in persona sotto false sembianze. Comunque agisce in modo criminale, con questo perdendo il suo status di vittima perché passa dalla parte degli «assassini». Dunque non si illuda il lettore di trovare l’atteso riscatto, di poter tirare un desiderato sospiro di soddisfazione. L’amaro che l’autore gli ha scavato dentro con il racconto delle malefatte di Jandoli non si scioglierà come neve al sole perché «giustizia è fatta», come si dice. Giustizia non è mai fatta in questo universo buio e disgraziato. La giustizia, ammesso che esista, appartiene a un sopramondo al quale queste creature non possono attingere, nessuna esclusa. E scavando un po’ nella biografia dell’autore si potrebbe in questo intravedere il suo conflitto di cristiano che non ha, forse, il dono della fede, quel dono che rende più sopportabile la traversata della vita e della terra.

Ma ora, per concludere, proverò a dire come mai mi è sembrato importante aprire questa mia riflessione con il racconto che, unico, mi è sembrato una piccola oasi in mezzo al deserto assetato, dove Antonio si è concesso un sorriso vero, senza retrogusti sardonici e anche la città da lui amata e tanto spesso descritta nei suoi libri in tutto il suo degrado, Roma, vi appare lucente, abitabile, paradisiaca. Dunque, sapete come si dice in psicanalisi, che per capire cosa sia la norma (ammesso che esista qualcosa che le somigli) bisogna analizzare i casi limite? Beh, in questi racconti bisogna praticare un capovolgimento: il caso limite è quello positivo di “Sotto le ali del caso” ed è alla luce della sua serenità, gentilezza, gratuità che si rivela la norma di una natura umana spregiudicata e meschina, avida e intrallazzona, egoista fino a lambire, o a precipitare dentro, le tante possibili tonalità del crimine.

Per parte mia continuerò a illudermi che le cose non stanno così, che l’essere umano è sostanzialmente buono e che solo le circostanze ne fanno la belva anaffettiva che appare ovunque e costantemente (non solo in questi racconti). Ma certo, attingendo a quel po’ di realismo che è persino in me e, soprattutto, guardando il mondo che ci circonda, temo di dover ammettere che raramente la letteratura ha saputo disegnare della società contemporanea un ritratto più onestamente veritiero e somigliante.

 

 

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