A casa di Moravia (Il Foglio 19/5/12)

A casa di Moravia (Il Foglio 19/5/12)

Una bella immagine di Alberto Moravia

Le fotografie non rendono del volto di Alberto Moravia quello che era l’elemento decisivo, nascosto nello sguardo: la dolcezza, che investiva improvvisamente, quanto inaspettatamente, la persona guardata. Nelle fotografie lo vediamo quasi sempre imbronciato, annoiato, duro, scostante. Forse perché sorride di rado e perché le grandi orecchie a punta, il naso a patata, i sopraccigli cespugliosi, la bocca amara a cicatrice, priva di labbra, fanno prevalere un aspetto mefistofelico. C’era invece in lui questa dolcezza negli occhi verdognoli che rimbalzava immediata su sorrisi rapidi, innocenti, da bambino timido, e che somigliava molto alla sua voce, perentoria ma affabile. Appare molto buffo, quasi irriconoscibile, in uno scatto pubblicato in Vita di Moravia, il libro autobiografico scritto sotto forma di intervista con Alain Elkann e edito da Bompiani, il suo editore: è in Africa con un cappellaccio in testa calcato fino alle orecchie, seduto pacificamente accanto a una bambina serissima e un po’ allarmata. Lui invece è allegro, complice forse del fotografo che vuole immortalarlo in quella posa da nonno, con le mani appoggiate al bastone, e del tutto indifferente alla presenza della bambina o così poco indifferente da ignorarla troppo, del tutto. Qui la dolcezza c’è, ma è come se lui per primo se ne facesse beffa. Una forma di «sprezzatura», di «recitar cantando», caratteristica secentesca dell’eleganza intellettuale e artistica che Moravia possedeva in sommo grado. Come prescriveva il Caccini nell’elaborare Nuove Musiche: «Bisogna cantare senza misura, quasi favellando in armonia con sprezzatura» o come aveva consigliato Baldassar Castiglione nel Cortegiano: «…usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi… Però si po dire quella essere vera arte, che non pare essere arte; né più in altro si ha da poner studio che nel nasconderla».

Oggi parleremmo piuttosto di leggerezza, o di atteggiamento aristocratico, ma non sarebbe la stessa cosa, perché la sprezzatura è di tutti, non appartiene a una classe sociale. Certi contadini, certi borgatari che piacevano tanto a Pasolini ne avevano in abbondanza. Non i borghesi, invece, sempre lì a ostentare ricchezze, conoscenze, potere, detestati da Alberto come da Pier Paolo. Una volta Moravia, parlando della grandezza, mi disse: «Se uno ce l’ha, è meglio che la nasconda. La grandezza non si esibisce, il non essere esibita è una sua qualità». Per aggiungere subito, con un guizzo giocoso: «E poi non sono anni di grandezza questi! Sono anni di bassezza». Era il 1980.

Il tavolo scrivania creato per lui da un amico artista

Anche nei tanti ritratti che noti e meno noti pittori amici gli hanno dedicato è difficile riconoscere quella sfumatura di dolcezza infantile, malinconica e buffonesca insieme, che lo rendeva caro a chi lo ha conosciuto e frequentato e che gli appariva e scompariva subito dal viso, come le nuvole di certi cieli sereni ma ventosi. Forse l’ha colta la sorella pittrice, Adriana Pincherle e un po’ anche Guttuso nel celebre ritratto cui lo scrittore era particolarmente affezionato e che mi metto a cercare durante una visita alla sua casa romana al Lungotevere della Vittoria, oggi museo (www.fondoalbertomoravia.it per le informazioni). Mi pare fosse appeso nell’ingresso, ma non lo trovo. Ce ne sono altri, e ci sono la famose maschere africane sulla parete del salotto, e la scrivania che gli aveva costruito il suo amico artista Sebastian Schadhauser: fu lui, dopo la morte dello scrittore a prenderne con sé il cane, lo spinone Arancio immortalato in tante foto. Molto della sobrietà della persona Moravia la si riconosce nella cucina modesta o nella sua camera da letto, spoglia e semplice: una vecchia poltrona scozzese dall’aria comoda, un comune copriletto, un giradischi antidiluviano. Vado a curiosare negli scaffali e chissà perché apro un libro di Céline, Rigodon, edizione Gallimard. Così scopro che era un regalo di Elsa Morante. Dice la dedica datata 25 marzo 1971: «A Alberto offro questo libro che non parla d’altro in ricordo di una delle tante (tutte) giornate in cui si parlava d’altro». Polemica come di consueto…

Una giovanissima Dacia Maraini con Moravia

Ma a proposito di dolcezza la ritrovo in un altro ritratto, fatto di parole però, disegnato da Dacia Maraini in un memoir uscito nell’autunno scorso, La grande festa (Rizzoli), dedicato alle persone importanti della sua vita, che l’hanno lasciata. Vediamo un Moravia affettuoso ed elegante – in modo molto personale – a cui piacciono le camicie e i maglioni colorati e con le valigie sempre pronte per partire verso destinazioni scomode e lontane. Probabilmente proprio perché affascinata dai lati puerili del suo ex-compagno, Maraini ne ha indagato l’infanzia in un altro libro-intervista del 1986 dal titolo Il bambino Alberto (Bur) ricco di spunti per capire l’uomo.

Almeno per Moravia non vale l’incomprensibile consuetudine tutta italiana di non scrivere biografie e testi memorialistici sui grandi personaggi, quasi fosse una diminutio scandagliarne i giorni e le zone d’ombra; quasi non fossero, questo genere di libri, tasselli necessari alla ricostruzione non solo di singole vite, ma di intere epoche, grazie anche al minuzioso catalogo degli incontri, delle amicizie, delle relazioni amorose e affettive o viceversa degli odi fra le persone. Per ricostruire la vita e la personalità di Moravia abbiamo per fortuna tanto materiale, come la lunga, dettagliata biografia scritta da un italianista francese e autore eclettico, René de Ceccaty, e tradotta due anni fa da Bompiani, venuta a riempire i vuoti della conversazione con Elkann con il quale, per quel che riguarda per esempio la vita sentimentale, Moravia ha parlato essenzialmente di Elsa Morante pur dichiarando che i diciotto anni di convivenza con Dacia Maraini, dal ’60 al ’78, sono stati «i più felici» della sua vita.

Gli si attribuisce un numero esuberante di flirt; era per sua stessa ammissione, e delle sue partner, tendenzialmente infedele. Ma gli piaceva la coniugalità, la stabilità, aveva bisogno di sentirsi in coppia, fuggiva la solitudine. Diceva: «Perché parlare di fallimenti sentimentali? Un matrimonio di venticinque anni, una convivenza di diciotto: due esperienze riuscite». La terza storia importante, la più anticonformista e chiacchierata, con Carmen Llera, incontrata nell’81 e sposata nell’86, fu spezzata dalla morte dello scrittore, nel ‘90. Ma di questo amore a Elkann preferisce tacere: «parleranno gli altri, se ne avranno voglia». E’ stato compito di De Ceccatty colmare la lacuna con il contributo della stessa Carmen che nel 2009 aveva raccontato in Finalmente ti scrivo (Bompiani) la loro sofferta vicenda amorosa intrecciando sue tarde risposte alle lettere che le inviava lo scrittore: «Cara Carmen, tutto sarebbe semplice se io non ti amassi. Siccome ti amo e l’amore è già di per se stesso complicato, tutto è invece orribilmente complesso e angoscioso». All’amico Alain aveva confidato: «Una volta che si ama veramente una donna la si ama per sempre, ma amare non vuol dire essere innamorati. L’innamoramento, che è all’origine dell’amore dura relativamente poco». Con Carmen probabilmente non è mai passato alla seconda fase per il carattere inquieto di lei, sempre in fuga, sempre pronta a innamorarsi di altri, pur tornando ogni volta a casa, da lui che, come non si era mai distaccato completamente da Elsa stando con Dacia, così continuava, pure dopo la separazione, a sentire quotidianamente Dacia, a mangiare con lei, telefonarle quotidianamente, viaggiare insieme qualche volta.

Con Elsa Morante al Premio Strega del 1957

Sulla leggenda che li riguarda circolano inevitabilmente pettegolezzi e false versioni delle cose. Racconta Dacia Maraini: «Non è assolutamente vero, per esempio, che io abbia portato via il marito a Elsa Morante: non mi sarei mai messa con Alberto se il loro matrimonio non fosse già finito da un pezzo. Elsa viveva per conto suo. Era stata lei a volersi separare. Era stata prima innamorata di Luchino Visconti e poi di Bill Morrow, della cui morte precoce ha portato il lutto per anni. E’ vero che non voleva  divorziare da Alberto, ma per uno strano puntiglio religioso e fideistico. Elsa odiava la realtà, come diceva Alberto, e viveva in un mondo di sogni in cui tutto era possibile e fiabesco. Un mondo in cui il matrimonio aveva una sua connotazione assoluta e magica: un anello che congiunge per la vita, anche se poi la vita cambia le cose e le persone e i sentimenti».

E incredibilmente, dato il suo carattere notoriamente «impossibile» e spesso aggressivo proprio verso le donne più giovani, Elsa Morante fu nei confronti della scrittrice che l’aveva sostituita accanto a Moravia sempre gentile. Continua Maraini: «Ricordo le sue parole affettuose quando è uscito il mio libro di poesie. Non me l’aspettavo. Io d’altronde l’ammiravo infinitamente. Avevo letto tutti i suoi libri che mi avevano dato delle grandi emozioni e glielo avevo detto». E poi ricorda «le  feste di Natale a casa di Elsa con la pesca dei regali, la sua allegria contagiosa, la sua capricciosità infantile, la sua intelligenza tagliente, il suo umorismo verbale». (Non so che rapporti Elsa intrattenesse con Natalia Ginzburg, per esempio, ma nella casa di Lungotevere Vittoria ho trovato il romanzo E’ stato così della Ginzburg, anno 1947, con la dedica: «Cara Elsa, mi piacerebbe che questo libro le piacesse». Poiché traslocando Morante l’ha lasciato a Moravia forse non l’era piaciuto granché).

Se gli anni con Dacia furono «i migliori» come lo scrittore teneva a rimarcare, quelli con Elsa furono platealmente conflittuali, spesso dolorosissimi. Tutte le persone che li frequentavano hanno lasciato della coppia un ritratto tempestoso, ricordano scenate, piatti rotti, urla. «Litigavamo continuamente» conferma lui stesso a Elkann «i nostri litigi erano qualche volta perfino uditi dal ristorante Il Bolognese, sotto casa nostra a piazza del Popolo e ci avevano resi famosi nell’ambiente degli artisti e degli intellettuali che frequentavamo». Erano, la maggior parte delle volte scontri letterari: Elsa era competitiva e non sopportava che si potessero avere giudizi sui libri e gli scrittori diversi dai suoi. E non sopportava di mentire. Diceva la verità a tutti e spesso rompeva amicizie per questo, anche grandi amicizie, come quella con Pasolini.

Una volta era seduta con Moravia da Rosati, in piazza del Popolo, e vide Edoardo Cacciatore che si stava avvicinando. Avevano appena ricevuto un suo libro di versi che a Elsa non era piaciuto. Moravia la pregò di dirgli che non lo aveva ancora letto. Ma lei si sbracciò per chiamare Cacciatore e, naturalmente, gli spiattellò subito in faccia che aveva scritto delle bruttissime poesie. Così il poeta si offese moltissimo e non li salutò più.

Con Pier Paolo Pasolini

Moravia diceva spesso con quel fuoco infantile nello sguardo: «Il successo l’ho avuto subito e perciò non è stato più un problema per me. Ho potuto disinteressarmene». Per Elsa non era così. Fino al premio Strega, vinto nel 1957 con L’isola di Arturo, non era un’autrice conosciuta al grande pubblico e la mandava in bestia essere considerata «la moglie di Moravia». Ma a quel punto il loro rapporto s’era già consumato e si stavano lasciando. Vivevano insieme, ma erano separati de factu, Alberto aveva conosciuto Dacia e se ne stava innamorando.

Un’immagine eloquente della coppia Moravia-Morante l’ha lasciata Elsa de’ Giorgi nel suo memoir Ho visto partire il tuo treno (Leonardo editore). «Si vedevano a Trastevere o fuoriporta tavolate con ventine di ragazzi che magiavano fettuccine, taluni compunti, altri rumorosi. Disseminati tra loro Elsa, Moravia, naturalmente Pier Paolo. Quella di non raggrupparsi loro tre era una determinazione di Elsa. Non voleva che i ragazzi si sentissero oppressi o condizionati dalla loro diversità “cumulata” di intellettuali. Pier Paolo a perfetto agio, raggiungeva uno stato di beatitudine. Elsa s’illudeva di raggiungerla, in una tensione poetica che la faceva sorridere angelica, ambigua, un po’ sfidante verso Moravia che, solo, smaltiva il proprio imbarazzo sotto il cipiglio disperato». Una volta uno di quei ragazzi tanto cari a Pasolini, si addormentò ubriaco con la testa appoggiata alla spalla di Moravia e piano piano gli scivolò «molle e arruffato» sul petto. E «Moravia lo considerava pensoso restando impettito, anche se un po’ schifiltoso, per non disturbarlo. C’è da giurare che Elsa lo invidiava».

L’amicizia con Pier Paolo Pasolini fu sicuramente la più importante nella vita di Alberto: «Era il mio migliore amico…Non andavamo d’accordo su molte cose, forse per questo alla fine andavamo d’accordo. E poi c’era un vero, profondo affetto, come tra fratelli». Tutto cospirava al loro incontro. Avevano molti amici comuni, Mario Soldati, Attilio Bertolucci, Sandro Penna, e nella Roma di quegli anni era difficile non incrociarsi in un caffè di piazza del Popolo, in un’osteria alla buona per artisti, nei salotti letterari dei Cecchi, dei Debenedetti, dei Bellonci, della de’ Giorgi, nella redazione di Nuovi Argomenti, la rivista nata nel ’53 diretta da Moravia. Sembra che a presentarli però fosse stata Elsa: aveva conosciuto Pier Paolo tramite Penna e aveva apprezzato le sue poesie proponendole al marito proprio per Nuovi Argomenti nel ’54. L’anno dopo i due scrittori erano già gli amici inseparabili, impegnati, polemici che il pubblico poté seguire per vent’anni sui giornali, nei dibattiti, in tv, oltre che nelle opere tanto diverse che pubblicavano. Hanno molto viaggiato insieme, e spesso con loro partiva anche Dacia, a cui Pier Paolo si affezionò moltissimo.

Con Pasolini, Maraini e Cesare Musatti (di spalle) nella trasmissione tv "Comizi d'amore"

Erano a Roma presenze imprescindibili, un pezzo vero e proprio della città. Moravia lo si incontrava spesso al cinema, perché ci andava sempre, per passione e per lavoro, era il critico cinematografico dell’Espresso e a  leggere adesso il volume di Bompiani Cinema italiano, che raccoglie tutte le sue recensioni e i suoi interventi sul tema fra il 1933 e il 1990 sembra di riudire la sua voce ruvida quando dispensava quei suoi giudizi taglienti, scabri, sempre razionali come teoremi bellissimi e sempre attenti al dettaglio che illumina una realtà confusa e la rende meravigliosamente semplice, codificabile. Pasolini era più segreto, drammatico. Si circondava di ragazzi, era scavato, magrissimo, con grandi occhiali neri sul naso. La sua morte violenta in quella orrenda notte fra il primo e il 2 di novembre 1975 arrivò come una catastrofe annunciata. Andava a cena con gli amici e poi, a un certo punto della sera, li lasciava per farsi inghiottire da un eros estremo e dai suoi ragazzi di vita, che non erano più quelli ingenui di una volta, si erano fatti ostili e pericolosi, e lui lo sapeva, e lo sapevano gli amici con cui si confidava ma che non potevano proteggerlo.

L’orazione funebre toccò a Moravia, chiuso in uno dei suoi bei maglioni, ma nero quella volta, sotto la giacca scura. In mezzo a una folla straripante che aveva seguito la bara dalla Casa della Cultura di via Arenula a Campo de’Fiori. «Abbiamo perduto un uomo coraggioso» gridava fra la costernazione e gli applausi «un elemento prezioso per la società, un testimone… Abbiamo perso un poeta, e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono due tre in un secolo….» Con quel suo gridare finiva un’epoca e finiva l’illusione (anche se nessuno lo sapeva ancora perché nessuno credeva davvero alle profezie pasoliniane) di poter cambiare la società; l’illusione del dopoguerra che aveva alimentato quella generazione di intellettuali marxisti e gramsciani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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