Recensione a Oscar Iarussi (Rivista “L’Immaginazione”)
Lo sapevate che Fellini ne La dolce vita per la parte di Maddalena (quella interpretata da Anouk Aimée) avrebbe voluto Silvana Mangano? Ma era stata, a sedici anni, la fidanzatina di Marcello Mastroianni, e anche se nel ’59 ne aveva una trentina, non ci fu verso: il marito e produttore del film, Dino De Laurentiis, ne era geloso e Silvana non ha mai accettato ruoli accanto a Mastroianni per tutta la vita. In storie così, elargite con nonchalance da chi conosce a fondo fatti e retroscena del cinema italiano e mondiale, ci s’imbatte con allegria nel libro apparentemente leggero di Oscar Iarussi, C’era una volta il futuro (edito da Il Mulino). In realtà, quando si arriva alla fine, dopo una lettura avvincente come quella di un bel romanzo zeppo di trame e di Storia, molte tessere della vicenda complessa del nostro tormentato paese sono andate a posto, e l’impressione è di aver letto un saggio sociologico più che un trattato sul cinema degli anni più fastosi, un saggio che spiega il perché quell’attesa di futuro promettente che occhieggia nel titolo sia rimasta disattesa, perché il testimone di un’epoca di splendori letterari e cinematografici non sia stato raccolto, ma giaccia tuttora nella polvere.
E’ infatti una storia di fratture e di false coscienze quella che racconta Iarussi, contrapponendo gli anni ’60 agli esiti berlusconiani del nostro recentissimo passato e correggendo con intelligenza l’interpretazione di una sinistra che troppo comodamente addossa le responsabilità alla parte avversa salvando proditoriamente se stessa. E quanto quel film-mito di Fellini fosse preveggente, l’autore lo dimostra inesorabile e preciso riportandoci alla sensibilità di un periodo in cuiå gli artisti erano all’altezza del proprio ruolo e sapevano coniugare con libertà e fantasia la di per sé vuota categoria dell’ ”impegno”.
Tutto ruota intorno a un anno memorabile, il 1960, quando dopo un inizio difficile: «un putiferio di polemiche, sputi contro il regista e veementi richieste censorie da parte ecclesiastica», La dolce vita, Palma d’Oro a Cannes, parte per la sua luminosa avventura di successo internazionale e opera-emblema non solo di una personalità artistica fuori dall’ordinario, ma anche di una città nei suoi anni aurei, ma anche di una società in bilico fra progresso e depravazione. Merito, fra gli altri, di Iarussi è dimostrarci come quella “depravazione” non sia limitata alla zona privata, erotica e familiare dei personaggi felliniani, ma invada come un cancro appena agli inizi sfere della vita sociale, produttiva, politica del paese le cui conseguenze subiamo affannati e attoniti ancora oggi. Anzi oggi più che mai. Un male che genera mostri, i cui nomi sono inquinamento, amoralità, speculazione edilizia, egoismo, narcisismo, corruzione, prodigiosamente concentrati nel celebre finale del film, nel grande pesce spiaggiato e morente. «E nella sequenza finale in riva al mare, dopo la notte brava culminata nello spogliarello di una signora-bene, un giovane travestito si lascia andare a una sconsolata profezia: “Nel ’65 sarà tutta una depravazione completa. Mamma mia che schifezza ne verrà fuori”».
Però l’Italia stava vivendo il suo prodigioso boom, si sentiva proiettata verso un crescente benessere, si lasciava le macerie della guerra alle spalle, abbandonava spensierata le campagne, si tuffava verso una non metabolizzata modernità e compiva il colossale errore di scambiarla per la televisione. Sì, barattava in modo irreparabile la realtà con il sogno (americano) di una superdonna, Anitona, a spese della femminilità normale, e rincorreva la ricchezza facile a spese del merito, le paparazzate a spese del giornalismo, i romanzetti a spese della letteratura.
Se un difetto ha questo libro è un eccesso di generosità nell’aver imbandito tanto in poche pagine. In carrellata velocissima ci passano sotto gli occhi origini, sviluppi, conseguenze della catastrofe che ci ha investiti, governo Tambroni e morti di Reggio Emilia, Muro di Berlino e mistero Mattei, JFK e guerra fredda, il divorzio e il ’68, catching up e omicidio Pasolini. Per non parlare del grande circo della cultura, alta e pop, Guareschi e Rita Pavone, Moravia e Coppi, gli artisti di piazza del Popolo e le Olimpiadi a Roma. Saggezza e lucidità sono così palpabili in questo libro che si vorrebbe spesso restare a lungo sull’intelligenza di una considerazione anziché correre a precipizio verso la successiva. Come quando l’autore fa notare quanto veloce sia stato in Italia, e oscenamente prorompente, il passaggio dalla realtà (ricordate il neorealismo?) al reality show, tanto che la caduta della seconda parolina crea senza turbamenti una perfetta coincidenza fra la realtà e la sua deformata e deformante spettacolarizzazione. O quando rileva en passant «una struggente nostalgia per Gobetti, Rosselli, Pertini, Parri, che però non risulta affidassero gli scritti clandestini alla società editrice di proprietà del capo del “regime”, come è capitato recentemente ai «non pochi “resistenti” pubblicati per i tipi di Mondadori».