Il romanzo di Marco Balzano sul precariato (L’Unità, 14/4/13)
Sembra che i «romanzi sul precariato» siano diventati una specie di sottocategoria del realismo contemporaneo e che – almeno secondo Walter Siti che ne parla nel suo recente e convincente saggio, Il realismo è l’impossibile (nottetempo) – agitino con ironia e autoironia prevedibili «cliché giovanilistici» e «sentimenti politicamente corretti», qui e là percorsi abilmente da un pizzico di «protesta civile» soprattutto se ci s’infila qualche «giovane immigrato» col profumo di «spezzatino allo yogurt cucinato dalla zia». Indubitabilmente Pronti a tutte le partenze (da un verso di Ungaretti) di Marco Balzano, nato a Milano nel 1978 e di professione insegnante, è un romanzo sul precariato con un protagonista trentenne, Giuseppe Savino, detto Giusè, che spera in una cattedra ma ottiene solo sporadiche supplenze, e nelle sue 200 pagine si muove anche qualche immigrato dalla Cina come dal Marocco. Però non vi ho trovato dentro nemmeno un cliché, né giovanilistico né adulto, e mi piacerebbe che Siti leggesse questo romanzo e si conciliasse con un realismo possibile, che non smonta le sue argomentazioni, anzi le rafforza.
Devo dire meglio: le situazioni prevedibili ossia povertà, rabbia, disagio, ingiustizia, disperazione ci sono tutte, ma trattate con orgoglio smagato, con raffreddata passione, con tranquilla determinazione linguistica, e questo cattura e incanta come se a snodarsi sulla pagina non fossero più le quotidiane vicissitudini di un povero sfigato come tanti, ma la favola triste, bizzarra e sorprendente di Giusè, diventato un Lazzarillo che non delinque ma simpatizza coi delinquenti, un antieroe colto che non frequenta intellettuali, un picaro che vorrebbe tanto radicarsi. Forse un eccesso di realismo produce il suo contrario?
Intanto Marco Balzano viene dalla poesia (Particolari in controsenso, Lieto Colle), è un esperto di Leopardi (I confini del sole. Leopardi e il Nuovo Mondo, Marsilio) e si è fatto per così dire le ossa, insomma si è allenato a questo suo realismo che definirei ascetico tanto è estremo, con un primo romanzo dignitosissimo: Il figlio del figlio (Avagliano). Non solo: ha sentito il bisogno di nobilitare, con intento contrappuntistico, le disavventure disadorne del suo personaggio, tradito e abbandonato da una piccola femme fatale di provincia, tale Irene, e sempre in scacco professionalmente, ponendo a titolo dei capitoli versi danteschi («A retro va chi più di gir s’affanna», «Era già l’ora che volge il disìo», «Andai, dove sedea la gente mesta»…). Anche perché Giusè, che s’ostina a insegnare nelle scuole che gli capitano, facendosi chilometri in treno o in macchina per raggiungerle, è studioso della Divina Commedia («quando studiavo Dante mi sentivo una persona migliore») e potrebbe persino aspirare – complice un lunatico cattedratico che lo stima e lo appoggia – a una lenta carriera universitaria, se tollerasse le logiche punitive e ondivaghe dell’ambiente. Soprattutto se tollerasse di convertire il suo ideale nobile d’insegnamento («per ogni scuola aperta resta chiuso un manicomio») in ripiegamento narcisistico del sapere.
Ma lui è un antieroe forte, a suo modo sognatore e dietro all’aria mite del perdente nasconde una determinazione a farcela nonostante i tempi avversi – sì, proprio quelli che stiamo tutti attraversando – malgrado le continue minacce d’affondamento e i non luminosi esempi di amici ancor più miserabili di lui (i famosi immigrati, ma non solo). Un rigore morale sorprendente – e contagioso – lo sostiene dall’inizio al finale non esattamente lieto, ma insomma in fin dei conti, incoraggiante. Un altro mondo è possibile? Forse sì. Ed è possibile anche una letteratura onesta capace di proporre non solo una storia a suo modo esemplare, ma un’idea della vita alta, anzi altissima – in altri tempi si sarebbe detto Weltanschauung – e vertiginosamente attraente, tanto più toccante se paragonata allo svilimento odierno di ogni ideale, di ogni visione grande dell’umano, di ogni superiore proposito di stare al mondo. A sapersi accontentare, naturalmente, come si contenta Giusè.
Ma dove Balzano non si contenta e dà il massimo al lettore è nello stile. L’adozione di un understatement realistico precisamente mimetico conosce inattese accensioni che scaldano tutto il romanzo con l’irruzione della tragedia, ma anche qui per sottrazione. Mi spiego meglio: la tragedia in Pronti a tutte le partenze aleggia in ogni pagina, è il compimento possibile di vite sempre sull’orlo del precipizio economico, affettivo, professionale; ma è messa in scacco da una preziosa autoironia che in qualche maniera sempre la disinnesca. Insomma il lettore è in tensione tutto il tempo aspettandosi il peggio, come stesse leggendo un giallo da cui può sbucare l’assassino con la lama fra i denti da un momento all’altro. Ma quel coltello non affonda mai interamente in nessuna carne, senza per questo che lo stesso lettore possa finalmente aspettarsi il meglio. Credo, anzi, che proprio questa posizione mediana, questo scomodo camminare sul filo perdendo l’equilibrio senza mai cadere, questo andamento borderline sia la speciale cifra di Marco Balzano nel panorama letterario della giovane narrativa contemporanea.
Tuttavia in tre momenti la storia s’impenna e la tragedia sfiorata esplode lasciando intravedere squarci di disperazione senza rimedio: quando un barbone incrociato per strada (che mi ha ricordato un altro clochard: quello di Innamoramenti, l’ultimo bellissimo romanzo di Javier Marìas, pubblicato da Einaudi) attacca senza ragione a pugni e insulti un incolpevole passante fermo al semaforo nella sua auto e quello di un pericoloso detenuto, nella classe in cui insegna Giusé, che solleva sotto le ascelle il professore indifeso – per alcuni interminabili secondi – solo per finire con l’abbracciarlo scoppiando a piangere. Il terzo momento è la vendetta di Giusé sulla piccola sciagurata che lo illude e tradisce esasperandolo («Non ero più io, no. Non ero più io»). Sono tre punti cardine in cui il romanzo potrebbe prendere un’altra strada diventando una delle tante narrazioni a effettacci che impunite ci ammorbano. Invece lo squarcio si chiude come si è aperto e la famosa pistola che in ogni brava narrazione realistica, se appare, deve prima o poi far fuoco, viene rinfoderata. Il suo scopo non era eccitarci come in un war-game, ma illuminarci sulla complessa natura umana.
E a proposito di natura umana, e in particolare femminile, lasciatemi fare all’autore un ultimo non secondario elogio: il modo in cui ha saputo tratteggiare caratteri femminili autentici. Non so cosa sia successo a un buon numero di maschi italiani che scrivono, ma si sono, anche i migliori purtroppo, incarogniti su un immaginario erotico-sentimentale pornomasturbatorio o da pigra contemplazione di bambole tv, finte bambine, finte star, finte sexy, finte tutte. Balzano ci restituisce donne credibili, deliziose o intollerabili, dalla «darkettona del primo banco» che dice senza diventare grottesca: «Mi piace il punk. Non mi piace l’emo punk», alla fatale-suo-malgrado Irene, alla possibile compagna di una vita che fa la libraia e si muove prudente e giudiziosa nel mare tempestoso dell’esistenza.