Omaggio a Calvino, che avrebbe oggi 90 anni (L’Unità, 15/10/13)
La generazione di scrittori che ha esordito negli anni ‘80, quelli che erano giovani o “nuovi” in quel periodo, nutriva per Italo Calvino un rispetto e un’ammirazione molto diversa dal culto o idolatria che suscitavano Pier Paolo Pasolini e Elsa Morante. E’ questa la ragione per cui Calvino ha fatto scuola, mentre gli altri no, chiusi nell’aura eccezionalità delle loro vite e dei loro estremismi biografici. Era una generazione, la nostra, presa fra due fuochi: quello della decretata fine dell’arte e quello della sempre più invadente società dei consumi che aveva trasformato in consumo anche la letteratura. Calvino, come e più di Giorgio Manganelli perché meno nevrotico e ricercato, indicava una strada percorribile, una possibilità di narrare cercandosi un pubblico senza cadere nella banalizzazione di stilemi usurati. Non si poteva più scrivere una frase come “la signora uscì alle cinque” d’accordo, ma si poteva ancora indagare la complessità combinatoria delle storie conquistando il lettore, utilizzando vecchi trucchi come la suspense, ingabbiandolo in una trama affascinante.
E poi Calvino aveva, nell’asfittica società letteraria italiana, dimensione internazionale quale solo Alberto Moravia si era guadagnato già giovanissimo e ancora continuava ad avere. Calvino viveva più a Parigi che in Italia, era stato partigiano, non si sottraeva alle grandi polemiche degli anni ‘50-‘60 sui rapporti fra letteratura e politica, era stato fra i pochissimi, dopo i fatti d’Ungheria nel ‘56, a uscire dal Pci con una lettera clamorosa, sfidando le ire e gli sfottò di Togliatti, e la conseguente emarginazione che ne sarebbe potuta derivare. Certo aveva alle spalle la forza di una casa editrice leggendaria e culturalmente potentissima, l’Einaudi, di cui era una colonna, ma il prestigio di scrittore e polemista che si era conquistato era solo suo, ottenuto sul campo.
A Parigi, con Elio Vittorini, aveva frequentato il cosiddetto “gruppo di rue Saint-Benoît”, che raccoglieva a casa di Marguerite Duras e Robert Antelme le menti internazionali più lucide e coraggiose in materia di opposizione alla politica culturale sovietica che si riverberava sui vari partiti europei e che pretendeva – per capirci – di liquidare Gide, considerato di destra, come “pederasta”, criticandone il Nobel. Tutti poi fuoriusciti o cacciati dal partito con ignominia (la Duras fu radiata perché di «costumi immorali», insomma scopava troppo!) ma tutti o quasi rimasero convintamente marxisti, al pari degli eretici Sartre e de Beauvoir. Oggi si userebbe l’orrenda definizione “diversamente marxisti”. Anche Calvino rimase di sinistra, nel suo modo elegante e superiore, e continuando a frequentare circoli culturali francesi, come l’Oulipo, che gli dava l’occasione di sperimentare con la narrativa (e di divertirsi) pur continuando a comunicare con un pubblico sempre più vasto e non necessariamente d’élite attraverso racconti e romanzi sempre sorprendenti, intelligenti, appassionanti. La contestazione sessantottesca (la parte acculturata di quella temperie) l’aveva scelto – non estranea la sua posizione critica verso il Pci – come scrittore prediletto per la sua lucidità geometrica, la sua ironia – cifra dei tempi – quanto altri preferivano l’adesione viscerale al Movimento della passionale Morante. Pasolini si era messo contro e attaccò anche l’ex amico Calvino per certe simpatie, che giudicava ipocrite, verso gli studenti in rivolta. Anche se poi di simpatie, veramente, Calvino ne aveva pochissime e certamente i sessantottini dovevano apparirgli troppo ignoranti per riconoscersi loro compagno di strada. Forse gli piaceva tutto ciò che si muoveva di nuovo nel mondo e nella vita culturale, salvo ritrarsi subito deluso il più delle volte, e quanto al ’68 a Pasolini rispose così: «Verso le nuove politiche le riserve e le allergie da mia parte sono più forti delle spinta a contrastare le vecchie politiche».
Pesava sulla sua figura umana un fare antipatico e sprezzante, che era soprattutto timidezza, profondamente smentito poi dalla forte carnalità di tanti suoi libri. La Trilogia innanzitutto, ma non solo. Come avrebbe potuto una personalità davvero fredda riscrivere con tanta forza e calore le meravigliose fiabe italiane? La curiosità non è mai fredda, e Calvino era una persona, uno scrittore curioso. Hanno avuto una grande fortuna postuma le celebrate (ma incompiute) Lezioni americane, particolarmente utili nella loro schematicità persino facile a contrapporre il lucido, coerentissimo Calvino al tanto più contraddittorio e dunque umano Pasolini. Una contrapposizione che, come tutto ciò che appoggia su preconcetti manichei, fa solo male alla giusta comprensione delle cose. Per evitare simili approssimazioni inviterei a leggere non solo tutta la produzione narrativa del grandissimo Italo, ma altrettanto attentamente quella saggistica. I tesori che si trovano nei godibilissimi scritti di Una pietra sopra o di Collezione di sabbia aprono scenari infiniti (ben più fecondi delle incompiute e francamente deludenti lezioncine americane) sul mondo com’è e sul mondo immaginario in una vivacissima coabitazione di realismo e visionarietà, sanità mentale e follia. Raramente l’enciclopedismo di un autore ha saputo parlare con tanta fantasiosa emozione, leggerezza, esattezza ai cuori alla deriva di naufraghi lettori.