Anna Banti nei Meridiani (Il Foglio, 2/11/13)
La storia va raccontata come si ascolta il mare in una conchiglia: rumore lontano del tutto irreale, eppure perfettamente evocato. Così scriveva Anna Banti i suoi romanzi storici, «inventando dal vero», con una capacità di straniamento da narratore, che lo storico, il saggista non può concedersi. «Tanto più libera, quanto più è documentata» la definisce Attilio Bertolucci in un’introduzione a La camicia bruciata del 1973. In quell’anno era un’austera, solitaria signora di settantotto anni che viveva in una villa settecentesca, Il tasso, nella periferia di Firenze in cui ogni arredo, mobili e gingilli erano un’opera d’arte, la casa che aveva diviso con il marito Roberto Longhi dal ‘39 fino alla morte di lui e dove continuò ad abitare, sola con un’assistente infermiera e due camerieri fino alla propria di morte, quindici anni dopo, novantenne. E’ impossibile raccontare la storia di questa donna segreta, di questa scrittrice asciutta e fine, prescindendo dal grande storico e critico d’arte, insuperabile prosatore, di cui fu l’eterna compagna, dolorosamente innamorata.
Aiuta adesso a ricostruirne la storia – nella colpevole mancanza di essenziali biografie che ferisce l’editoria italiana – il volume mondadoriano dei Meridiani a lei dedicato, Romanzi e racconti, a cura della precisissima Fausta Garavini con la preziosa collaborazione di Laura Desideri. Veramente di Banti si era tornati inaspettatamente a parlare tre anni fa, per il bel film di Mario Martone, Noi credevamo, dedicato al Risorgimento italiano e tratto (liberamente) da un corposo romanzo della scrittrice, di cui la pellicola ha conservato il magnifico titolo. Ma se ne parlò comunque fuggevolmente, non certo per collocarla al posto che merita o per rileggerla. Speriamo che questo Meridiano sia l’occasione buona. E cominciamo dalla vita, così strettamente intrecciata a un pezzo importante della nostra cultura, fitta di relazioni, scambi, iniziative all’interno della scomparsa società letteraria e artistica in cui Anna Banti si è sempre mossa, pur nel suo aureo isolamento e con il suo carattere naturalmente schivo, un po’ brusco, a volte sentito dagli altri come sprezzante.
Anna Banti è uno pseudonimo; me ne spiegò la scelta in un’intervista che le feci nel 1983: «Mi sarebbe piaciuto usare il cognome di mio marito. Ma lui l’aveva già reso grande e non mi sembrava giusto fregiarmene. Il mio vero nome, Lucia Lopresti, non mi piaceva. Non è abbastanza musicale. Anna Banti era una parente della famiglia di mia madre. Una nobildonna molto elegante, molto misteriosa. Da bambina mi aveva incuriosito parecchio. Così divenni Anna Banti. Del resto il nome ce lo facciamo noi. Non è detto che siamo tutta la vita il nome della nostra nascita». Si sentiva, come la sua Artemisia, «donna eccezionale, né sposa né fanciulla», non voleva imporsi in quanto moglie di Longhi e invece finì comunque così: che fu sempre considerata «la moglie di» e questo la fece molto soffrire. Si era innamorata di lui giovanissima, al liceo classico Tasso di Roma: era il suo professore di storia dell’arte, di soli cinque anni più grande di lei che era nata a Firenze nel 1895. Comincia a usare quel nome quando sono ancora fidanzati e lui la istiga a costruire giocattoli artistici per una mostra collettiva che intende invitare l’industria italiana all’indipendenza dai modelli tedeschi imperanti. «Entusiasta Lucia si mette all’opera» racconta Fausta Garavini nella cronologia introduttiva al Meridiano «con temperini, scalpelli, legno di gattice, creta, cenci, cordoni e sete e frange antiche pescate dalle casse della nonna torinese confeziona, mandandoli via via a Roberto, burattini, trenini, animaletti….» Il matrimonio si celebrerà solo all’inizio del ‘24: Lucia non ha fretta, ha un carattere indipendente e probabilmente prevede che essere sposata a Longhi significherà consegnarsi mani e piedi al suo genio straripante, sacrificando tanto della propria autonomia a un uomo totalmente incapace, oltretutto, di occuparsi del lato pratico della vita. Intanto si è laureata con Adolfo Venturi e si fa notare per il notevole acume nella critica, addirittura sarà presto in grado di aiutare il marito nelle perizie di attribuzione. Ma, ancora una volta: «Lui era un genio della critica d’arte, io sarei stata una normale storica dell’arte. Anche se qualche intuizione, in questo campo, l’ho avuta…» Perciò abbandona l’arte per la letteratura. Scrivere le piaceva da sempre. Il suo primo romanzo, Itinerario di Paolina, in gran parte autobiografico, esce nel ‘37.
L’amica pittrice Leonetta Pieraccini, moglie di Emilio Cecchi, così descrive la coppia Longhi nel suo diario: «Giuocano insieme al tennis, lavorano insieme, studiano il russo, scelgono d’accordo i vestiti, i cappelli, gli accessori, e si bisticciano come ragazzi. Gli anni non modificano la loro situazione di scapoli coniugati. Neanche la ricchezza li ha appesantiti: né la posizione sociale di lui. Sembran sempre i due giovani che faranno carriera». Leonetta è un’amica degli anni romani che le resterà vicino tutta la vita, anche dopo il trasferimento a Firenze. E a Roma Lucia conosce e stringe amicizia pure con un’altra dama dei salotti cittadini, Maria Bellonci, che coinvolgerà fra i primi i Longhi, l’11 giungo del ‘44, nella fondazione del Premio Strega, che però Anna Banti non vincerà mai. Con Gianna Manzini, invece, leziosissima romanziera che posa a Virginia Woolf molto popolare in quel periodo, l’amicizia sarà di facciata. Sempre nel suo prezioso diario Leonetta stigmatizzerà i rapporti fra Lucia e Gianna: «Dicono cose cortesissime l’una dell’altra, ma si sente lontano un miglio che non s’intendono, non si sopportano». Il temperamento sincero e diretto di Banti, che non fermava la lingua fino a soprannominare Bellonci «l’Aquila a due tette» (ma questo quando negli anni – complici le delusioni dello Strega – l’amicizia s’incrina senza spezzarsi) era l’esatto contrario delle smancerie formali della Manzini. Sempre mediata dalla figura dominante di Longhi sarà invece la frequentazione con la fascinosissima Palma Bucarelli, direttrice della Galleria d’Arte Moderna nella capitale.
Nel ’44, comunque, i Longhi sono già sistemati nella magnifica villa Il tasso, piuttosto fuorimano, in via Benedetto Fortini a Firenze. E ancora una volta è Lucia a star dietro all’acquisto, a litigare con gli operai («al solito, io faccio sempre le cose che non ho voglia di fare. Longhi è ancora latitante»), ma alla fine godrà di quella solitudine in mezzo alla bellezza che le era tanto congeniale per scrivere. E in quella villa, infatti, scrive uno dei suoi libri migliori, la raccolta di racconti Il coraggio delle donne con un indimenticabile personaggio di ragazza, Lavinia, in Lavinia fuggita che, maestra di coro del collegio per orfane della Pietà, a Venezia nei primi del 1700, per far eseguire le sue musiche arriva ad alterare le partiture del Vivaldi e se ne sta in ascolto terrorizzata di essere scoperta «con quel suo magro profilo aquilino e le corde del collo tese come una vecchia». Lavinia, come poi Artemisia, come le protagoniste di un’altra raccolta, Le donne muoiono del ‘52, è il simbolo di una condizione femminile condannata al silenzio e all’esclusione, che sa trovare inaudite risorse per imporsi, nonostante tutto, con sorprendenti gesti eroici e artistici. Sono spesso donne, quelle della Banti, che fanno del loro orgoglio e della loro genialità un vanto tutto interiore, nascosto, ma – proprio per questo – ancora più grande del banale riconoscimento pubblico riservato agli uomini. Come quando la pianista Agnese Grasti (in Le donne muoiono) suonando riscopre in sé «oggetti e persone, e un vento, e un gonfior di nuvole memorabili; mentre lo spazio si proiettava a riceverli, tuonando dolcemente in profondità». Eppure mai Anna Banti ha voluto ammettere di avere qualcosa in comune col femminismo, nemmeno quando proprio le femministe degli anni ‘70-‘80 l’hanno generosamente riscoperta. «Il mio è più una forma di umanesimo» diceva «che vero e proprio femminismo. Non sono sempre e comunque dalla parte delle donne. Anzi: penso che le donne siano cattive verso le altre donne. Sono invidiose. Non sopportano che un’altra si distingua in qualcosa». Parlava forse di se stessa?
Non di Maria Bellonci, generosissima verso di lei. Quando nel ’48 Banti pubblicò Artemisia, dedicato alla Gentileschi, il suo romanzo più famoso e sofferto (dovette scriverlo interamente due volte avendo perduto una prima stesura) Maria lo portò allo Strega appoggiandolo strenuamente. Ma nonostante il forte sostegno anche dei Cecchi, Emilio e Leonetta, e il cambiamento di voto di Sibilla Aleramo che aveva in una prima fase sostenuto Il compagno di Cesare Pavese, Lucia perse con una distanza di soli quattro voti dal poeta Vincenzo Cardarelli, in gara con Villa Tarantola, che – dicono – si fosse dato molto da fare per vincere, al limite dell’opportuno, facendo pesare età e malattie. La Aleramo trovò Artemisia «di un’estrema bravura, testimonianza di un ingegno eccezionale», mentre la Bellonci protestò per l’atteggiamento «offensivo» mostrato dalla stampa che sminuiva come «galante» lo schieramento corso in appoggio alla Banti e lo definì anzi come «la subcosciente avversione, riducibile solo a forza di logoramento, degli uomini italiani per le donne d’ingegno».
L’amarezza, quell’anno, per aver perduto l’importante riconoscimento per un soffio si univa a un altro evento privato: la vendita della deliziosa villetta estiva La turchina che i Longhi possedevano a Marina di Massa, a lei molto cara e meta di amici prestigiosi, con il conseguente trasferimento della villeggiatura in albergo o in case d’affitto (fino alla sistemazione in un’altra celebre villa, I ronchi, nei pressi di Forte dei Marmi, di cui Anna però pativa l’eccessiva mondanità). Alti e bassi di una situazione finanziara minata dal gusto per il gioco dell’esimio storico dell’arte. Le crisi depressive, che la tormentano da sempre, allora si accentuano e forse anche la severità del carattere. E’ la Aleramo a lasciarne preziosi ritratti nel suo Diario: «Singolare donna questa Lucia Longhi. Una delle più intelligenti e sensibili ch’io abbia conosciuto, con uno strano destino di invincibile ‘complesso d’inferiorità’ (come si dice oggi) di fronte alla vita, sin dalla fanciullezza, come testimoniano i suoi libri». E ancora: «Singolarissima donna, di grande ingegno, ma… di una sconsolatezza tremenda, contro cui non si può tentar nulla». Agrodolce lo schizzo che ne fece un’altra narratrice scoperta dagli Amici della Domenica, Laudomia Bonanni: «Un’arte così strenua, un così solido e acuminato cervello, dietro quel viso… una donna celebre… poi bella, poi ricca, poi con un marito autorevole, potente, favorita insomma dalla vita fin troppo. Che sia mostruosamente superba (e insieme puntigliosa al modo dei bambini) non stupisce». Cristina Campo la descrive «patetica di sussiego». «Personalità primaria, tormentatissima» la fotografa Cesare Garboli. E Vittorio Sgarbi: «Una donna di sentimenti delicatissimi, e di carattere forte… Fragile poi, e umana, civilissima nei rapporti con chi stimava». Cecchi trova in lei «Un talento enorme» e, quando esce Allarme sul lago nel ‘55 dice alla moglie: «Non mi stupirebbe che alla fine dei conti il cervello di Lucia non risultasse più potente di quello di suo marito». Però lo scontenta un certo «carattere meccanico» nel suo raccontare che ai lettori di oggi risulta subito evidente e temo sia all’origine dell’indifferenza contemporanea verso la scrittrice.
A partire dal ‘50 la vediamo alla direzione della rivista d’arte e letteratura Paragone in mezzo a un comitato di redazione prestigioso che va da Attilio Bertolucci, a Longhi a Carlo Emilio Gadda a Giorgio Bassani e dove muoveranno i primi passi Garboli, Alberto Arbasino, Elemire Zolla, Umberto Eco, Roberto Calasso e che ospiterà scritti delle amiche colte di Anna, da Alba De Céspedes a Elsa de’ Giorgi. In realtà il potere crescente della coppia Longhi-Banti, «padroni di Firenze», come venivano definiti, dall’Università all’editoria alle mostre, non va a favore di una corretta valutazione della sua opera, da una parte sempre esaltata dalla critica fatta per la maggior parte di amici di famiglia, dall’altra non presa mai fino in fondo sul serio per lo stesso motivo. Non mancavano poi stroncature epocali. Su Le mosche d’oro, del ‘62, un recensore non allineato come A.G. Solari scrive: «Nessuno ha il coraggio di dire che è brutto». Così brutto che allo Strega l’abbandona anche l’amica di sempre Bellonci tutta a favore di Mario Tobino. Eppure il libro aveva avuto padrini di grande nome: Cecchi e Giacomo Debenedetti e Pasolini che la presentano nel centro culturale più in voga in quegli anni, l’Open Gate, nella zona di via Veneto. Risultato, un epigramma al vetriolo di un burlone anonimo (forse Maria Luisa Spaziani): «Che cosa trista/ per un’artista casta/ essere detta manierista/ da un pederasta/ comunista».
Era lo spirito dei tempi. Le nevrosi di Anna Banti non dovettero esserne mitigate. Ma non era persona rancorosa, almeno non verso gli uomini. Racconta Piero Gelli nella prefazione alle Lettere di Anna Banti ad Arbasino (Edizioni Archinto) di quando, in qualità di direttore editoriale della Rizzoli, dove era stato pubblicato Un grido lacerante, non si era opposto – pentendosene più tardi – a mandare il romanzo al Campiello condannando la scrittrice all’umiliazione della bocciatura da parte della giuria popolare. «Ma la Signora, quando andavo a trovarla a Firenze» dice Gelli «non dimostrò mai di nutrire rancori di sorta per lo smacco del libro. Era da sempre consapevole di avere come scrittrice una platea elitaria». Era il 1981 e quello sarebbe stato il suo ultimo romanzo che riverberava – come già La camicia bruciata del ’73 – il dolore indicibile per la perdita del compagno avvenuta per un tumore il 3 giugno del ’70. Semplicemente viveva ancor più ritirata senza però abbandonare l’attività di traduttrice (di Virginia Woolf, di Colette, di Jane Austen), conferenziera, critico sempre «bastian contrario» come diceva lei.
Prima di morire si preoccupò lasciare il suo intero patrimonio alla Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, istituita nel ’71 esprimendo il desiderio di trasformare la casa in museo. Purtroppo con furia iconoclasta negli anni precedenti aveva distrutto alla rinfusa l’intera corrispondenza del marito e sua, trovata nei segreti cassetti della villa.