Intervista a un’intervistatrice (L’Unità, 4/2/14)

Intervista a un’intervistatrice (L’Unità, 4/2/14)

Irene Bignardi

Irene Bignardi

Qual è la voce d’un intervistatore nell’intervista? E: si deve sentire quella voce, o solo quella dell’intervistato? Mi pongo queste domande leggendo con vera delizia Brevi incontri (Marsilio, 270 pagine,  20,00 euro) di Irene Bignardi, una raccolta di 40 interviste fra le più interessanti delle tante che ha dedicato a personaggi di primissimo piano, da Graham Greene a Alice Munro, da Nina Berberova a Philip Roth, da E.M.Cioran a Leni Riefeensthal, da Arthur Miller a Borges a Marquez a Fellini a Truffaut a Billy Wilder a John le Carré…. La risposta è sì, la voce dell’intervistato – in una bella intervista – si deve sentire, e riconoscere.

«Altrimenti hai questi articoli standardizzati di cui sono pieni i giornali adesso» dice lei, anche se, dice, personalizzare troppo è un rischio, e alcuni esagerano. O meglio: hanno esagerato. In questo campo, tocca parlare al passato. La grande intervista è quasi completamente scomparsa. «Per motivi economici, innanzitutto. I giornali non hanno più le risorse di una volta, quando ti davano pure il tempo di prepararti come si deve». E i giornalisti inseguivano la preda anche per mesi. Lei, per riuscire a intervistare Saul Steinberg per esempio, ha aspettato un anno. Però quell’incontro manca dal suo libro, l’intervista è andata perduta. E poi – ma troppo tardi per la pubblicazione nella raccolta – l’ha ritrovata nel Fondo Steinberg! Il che vuol dire che «il principe dei disegnatori», il grande fumettista rumeno-statunitense non si fidava dei giornalisti e accendeva un registratore segreto per farsi la copia.

L’episodio è raccontato dalla stessa autrice nell’introduzione che ha l’affabilità e lo spirito della persona ora abbandonata accanto a me in un divano della sua casa romana dove si affastellano libri, oggetti, ricordi e una quantità sterminata di DVD con film di tutto il mondo e le epoche, che guarda su uno schermo gigante montato fisso in una stanza. I capelli ondulati sono sparsi sullo schienale, gli occhi d’un blu intensissimo lanciano bagliori allegri e la bocca sorride facilmente, persino quando evoca episodi tristi della sua vita movimentata.

Bignardi con Borges sulla copertina del libro

Bignardi con Borges
sulla copertina del libro

Ha dedicato il libro «al giornale che è stato la mia famiglia», la Repubblica, per cui ha lavorato 25 anni, e ai suoi capiservizio alla cultura in periodi diversi: Rosellina Balbi e Paolo Mauri. Mauri è tuttora uno dei suoi migliori amici, e della Balbi ha un ricordo affettuosissimo: «Una “capa” onnisciente e severissima, l’unica che mi abbia fatto riscrivere gli articoli! Mi ha insegnato moltissimo». Si parla di «quando i giornali erano davvero una famiglia nel senso che, per le belle cose che ti capitavano, i colleghi ti festeggiavano, e per quelle brutte ti coccolavano». Lei è arrivata al giornalismo abbastanza tardi, a 32 anni. Prima aveva fatto la libraia per l’Einaudi a Milano dove aveva conosciuto Elio Vittorini («Mi chiamava Miele, traducendo l’Honey americano»). Poi traduttrice per la Rai, quindi impiegata ai servizi culturali dell’Olivetti dove si «annoiava moltissimo», ma certo l’Olivetti era, ancora in quei primi anni ’70, il tipo di azienda in cui, avendo vinto una borsa di studio per gli Usa, «poteva capitarti di essere convocata e sentirti dire: “Le diamo l’aspettativa e uno stipendio pari alla sua borsa di studio, perché vogliamo investire su di lei”». Di quell’investimento, poi avrebbe colto il risultato il neonato quotidiano romano dove fu assunta al ritorno (per amore si era trasferita a Roma), prima in cronaca, e in seguito alla cultura.

«Ricordo il giorno dell’appuntamento con Scalfari, per l’esame del mio curriculum: caddi dal motorino e mi sbucciai le ginocchia, così  mi presentai sanguinante». Un altro tipo di sangue doveva scorrere una decina d’anni dopo, per la nomina a primo critico cinematografico. I contendenti erano parecchi e non gliel’hanno perdonata. Anche perché era un ruolo da sempre maschile e alle donne non restava che seguire le cronachette mondane dai festival. Ma di festival poi Bignardi ne ha diretti più d’uno, il Mystfest, Locarno, Deserts Nights. E anche se il cinema, in Brevi incontri, è meno rappresentato della letteratura, non è mancanza d’amore, anzi. Al cinema Irene ha dedicato quasi tutti i suoi libri precedenti, come il recente, personalissimo itinerario Storie di cinema a Venezia (Marsilio 2012).

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