Ardant recita Duras (Il Foglio, 15/2/14)
A teatro, a Parigi, Fanny Ardant è in scena con una pièce di Marguerite Duras, Des journées entières dans les arbres, al Gaîté Montparnasse fino al 30 marzo. Al cinema danno il suo secondo film da regista, Cadences obstinées, uscito nella seconda settimana di gennaio, che nasce da una frase di Duras: «Aspettare l’amore è già l’amore». Passerà a Roma, in aprile, all’interno di una rassegna organizzata dall’Istituto Francese di Cultura. La protagonista del film, interpretata da Asia Argento, si chiama Marguerite, detta Margo proprio come l’autrice dell’Amante. Quando le faccio notare che anche lei, Ardant, si chiama Marguerite di secondo nome (Fanny, Marguerite, Judith) scoppia a ridere: «Ero predestinata alla Duras, dunque! Effettivamente la adoro. Per la sua libertà di pensiero, per la sua grande trasgressività. Persino per la sua malafede. Quando ami, è un po’ inevitabile essere in malafede, no? E lei amava con trasporto le cose, la politica, le persone. E non è detto che uno s’innamori delle persone migliori. Se t’innamori di un imbecille, di un gangster magari, che fai? Gli dai dell’imbecille, lo denunci alla polizia? No, no e poi no. Ti trasformi in una persona in malafede: quell’imbecille per te diventa persino intelligente, e il gangster…. be’, il gangster…» Scoppia di nuovo a ridere, sottintendendo che il gangster ha ben altre stigmate di seduzione che il suo essere contro la legge.
I suoi due film – il primo di cinque anni fa s’intitola Cendres et sang – sono pieni di malavitosi. Se non proprio gangster, uomini primordiali, violenti. Ed è un violento, un mascalzone anche “il figlio” (non ha altro nome) di Giornate intere fra gli alberi, commedia del ’65 che Marguerite Duras ha rielaborato – con diverse modifiche – da un suo racconto omonimo di dieci anni prima. E’ la storia – centrale nella vita della scrittrice – della smaccata preferenza di una madre per uno dei figli, un deviante, uno che prostituisce la giovane compagna, uno che arriverà a derubare la madre dei gioielli per venderli, giocarsi il ricavato, e perdere tutto. Senza per altro suscitare altra reazione che una grandiosa dichiarazione d’amore, perché l’amato è perdonato a priori, è “il perdonato” per eccellenza. «Anzi» sottolinea Ardant «la madre ha lasciato in vista i gioielli, proprio perché lui se ne appropriasse, per non costringerlo a chiederglieli e a doverla ringraziare».
C’è chiasso nel bar di Saint-Germain, dove mi ha dato appuntamento, la macchina del caffè fa un rumore infernale quando il cameriere tira giù la leva e innesca il vapore. Fanny si gira a guardarlo severa, ma non protesta. Lui alza le spalle per scusarsi e lei gli sorride con uno di quei sorrisi giustamente famosi, allungatissimi, aperti.
Non è la prima volta che recita Duras. L’ha fatto nel ’95, il suo partner era Sami Frey, con la rappresentazione – sempre al Gaîté Montparnasse – de La musica deuxième, scritto da Marguerite dieci anni prima. Poi, con Gérard Depardieu, c’è stato La Bête dans la jungle di Henry James. In questo caso Duras aveva fatto l’adattamento. («Ma non è meno lei! Le parole che sceglie in francese sono le sue! E per un autore le parole sono tutto» commenta la Ardant). Infatti nella raccolta in quattro volumi del teatro della scrittrice, editi da Gallimard, il terzo è interamente riservato agli adattamenti (da James e da Strindberg). Poi nel 2006 Fanny ha fatto La maladie de la mort («Ero dentro una scena spoglia con un coltello in mano, e fumavo…»). L’anno scorso ecco Navire Night: «Recitavo da sola tutte le parti, insieme a una violoncellista straordinaria, Sonia Wieder Atherton», che suona anche in Cadences obstinées, “doppiando” allo strumento Asia Argento.
Ma tornando a oggi, a queste Journées entières: «E’ senz’altro una pièce autobiografica» riprende, seduta di traverso a un tavolino, le gambe di lato, i gomiti sul tavolo, gli splendenti occhi scuri accesi di passione letteraria. «Ma cos’è l’autobiografia? Qualcosa che si mescola ad altre biografie e alle esigenze della narrativa! Allora, sì, penso che la madre sia effettivamente disegnata sulla figura della vera madre della Duras, che preferiva smaccatamente il primogenito, ma che rifletta anche la stessa scrittrice e la sua relazione con il suo di figlio. Insomma penso che l’intento della commedia sia descrivere l’intenso rapporto fra una madre e un figlio e, in definitiva, sia il racconto di una particolare storia d’amore».
La commedia fu rappresentata in teatro per la prima volta all’Odéon di Parigi, nel 1965, dalla prestigiosa compagnia Renaud-Barrault. «E’ un’opera che va dritta alla pancia, al cuore, alla testa. Brucio dalla voglia di metterla in scena» aveva scritto Jean-Louis Barrault a Marguerite Duras. Madeleine Renaud fece del personaggio uno dei suoi capolavori, un cavallo di battaglia che avrebbe poi replicato nei teatri di mezzo mondo per tutta la vita, come era avvenuto con la Winnie del beckettiano Giorni felici. E ci fu senz’altro Samuel Beckett in platea – lui e Duras si stimavano reciprocamente – ma non la sera della prima. Era troppo riservato Beckett per andare alle prime. Si era fatto vivo nel pomeriggio con Madeleine, la sua attrice preferita, attraverso un biglietto: «Solo due parole per augurare a tutti voi Giornate intere gloriose». E gloriose furono. Venne giù il teatro per gli applausi. Marguerite Duras rimase impressionata, aveva la sensazione di ritrovarsi in presenza di sua madre, Marie Donnadieu, in carne e ossa mentre era morta da quasi un decennio. Pianse. Yves Saint-Laurent, che aveva creato i costumi dello spettacolo, le passò il fazzoletto. Nel pubblico c’era anche Georges Pompidou, futuro presidente della Repubblica, e c’era un regista, Jean Chapot, nuovo amore di Marguerite, di quindici anni più giovane di lei, che era già cinquantenne.
Anche al Théâtre de la Gaîté Montparnasse scrosciano applausi ogni sera, e si registra il tutto esaurito. E’ un teatro bomboniera, tutto legno dorato e velluto rosso, con gli attori che ti stanno addosso e ti viene l’illusione, allungando la mano, di poterli toccare. Fanny Ardant ha ringiovanito di vent’anni il suo personaggio, che nelle intenzioni di Duras è una madre quasi ottantenne, e così nell’impostazione di Madeleine Renaud anche se la Renaud aveva solo sessantacinque anni quando la interpretò. La stessa età di Fanny, capace di mettere in gioco bellezza e sensualità in un ruolo che sulla carta sembrava non prevedere né l’una né l’altra.
«Come no!» protesta. «Ogni riga in Duras prevede sensualità! L’intera sua vita e tutta l’opera ne sono testimonianza. Ma, a parte questo: l’idea della messinscena si basa proprio su un personaggio di madre ancora molto seducente, che gioca con l’edipo. Non è un’interpretazione forzata del testo, perché la seduzione corre dentro la relazione fra questa madre e questo figlio». Una madre che non nega la sua smaccata preferenza e che afferma spavaldamente: «Per me, io ho paura, paura, muoio dal desiderio di dire a te tutta la verità, perché, se ci penso, con tutti questi bambini che ho avuto, sei in tutto, io non amo sul serio che te; gli altri… tendo a dimenticarmene…» E arriva a confessare: «Quando ti rivedo, te, ah!… così caro! Te ne stavi giornate intere fra gli alberi… Com’era affascinante… Non avevo mai visto niente di simile: tanto ardore nel gioco, tanto fascino. Passo – così mi hanno detto – per una madre ingiusta! Che società! Che modi! Con quale diritto impedirmi di preferirti?»
Perché nei rapporti amorosi è sempre in ballo qualcosa di incestuoso, osserva. E dunque spesso Duras parla di questo, del mistero dell’attrazione fra un uomo e una donna che sempre presuppone l’antica attrazione edipica per un padre o una madre. Sta di fatto che sul piccolo palcoscenico del Gaîté Montparnasse, Ardant occupa interamente la scena anche se Nicolas Duvachelle le tiene testa con vigore.
«E quale vigore!» scherza lei. «Ci sono momenti nella commedia in cui mi aggredisce e mi malmena. Allora vorrei essere una che passa il tempo in palestra a fare kickboxing per rispondergli come si deve» e agita nell’aria le mani chiudendole a pugno dove intravedo, nel palmo, il disegno di una piccola croce. Cos’è, domando. Ma lei serra rapidamente la mano portandosela dietro la schiena, un po’ ridendo e un po’ preoccupata. «Ah, no!» dice. E’ un segreto? «Un segreto, sì». Qualcosa di religioso, di scaramantico? Scuote la testa increspando le labbra per dire che a questo non risponde. Allora noto una croce d’argento che pende da una catenina intorno al collo. Può essere testimonianza di fede, può non voler dire niente. Un ninnolo. Torniamo a parlare di teatro.
Ci sono momenti nello spettacolo in cui si ride, e altre commoventi. Questa madre piombata in Francia dalle colonie dell’Asia per rivedere il figlio dopo cinque anni di lontananza, è una donna che si è arricchita gestendo un’officina con ottanta operai. Parla con affettata mondanità e poi improvvisamente fa affiorare tratti estremamente grossolani e alterna la preoccupazione per il figlio a uno spirito fatalistico di noncuranza per la vita, per il futuro. Ardant calibra sapientemente le diverse sfaccettature del personaggio, allontanandosi dai ruoli sentimentali in cui siamo abituati a vederla al cinema, ma anche in quella Musica deuxième, in cui si fronteggiano due ex coniugi, insieme per caso dopo aver divorziato. E parlano di tutto e di niente, con fra loro il costante dolore di un amore finito, che potrebbe ricominciare, ma non ne ha la forza perché, come dice lei: «Guarda, sono la sola donna, ormai, che ti sia vietata».
«Trovo bellissimi i dialoghi che costruisce Duras» dice Fanny. «Quelli di Hiroshima mon amour sono eccezionali». Il film di Alain Resnais, sceneggiato da Duras, partecipò al Festival di Cannes nel ’59, l’anno in cui si affermava la Nouvelle Vague. Ne furono pazzi Cocteau come Chabrol, Truffaut come Godard. Quando in quel bar di Saint-Germain nomino François Truffaut, scomparso nel 1984 a cinquantadue anni e suo compagno dall’81, un’ombra passa negli occhi di Fanny, il sorriso si perde per un momento. Truffaut ha conosciuto Duras, lei no, purtroppo. Dice.
«Perché mentre ero su con La musica deuxième, Duras era vecchia e malata. E’ morta l’anno dopo». Eppure avrebbe potuto incrociarla già nel ’68, quando era una studentessa di Scienze Politiche e Marguerite s’impegnava con gli studenti del maggio francese, protestava accanto a loro. «Ero io che non contestavo. E poi non vivevo a Parigi, ma ad Aix-en-Provence in quel periodo. E non partecipavo alla vita studentesca. Stavo per fatti miei». Nata a Seamur, nella Loira, da un’antica famiglia borghese, cresciuta a Monaco, dove il padre, colonnello di cavalleria, era amico personale del principe Ranieri, Fanny ha avuto un’infanzia e una giovinezza felici, ma il carattere malinconico l’ha portata a isolarsi in uno spiccato individualismo. «Mai fatto parte di gruppi. E ancora adesso sto per conto mio, con la mia famiglia». Costituita dalle sue tre figlie: Lumir avuta nel ’75 dall’attore Dominique Leverd, la trentenne Joséphine Truffaut, che ha un bambino di 4 anni, e la ventiquattrenne Baladine, figlia del regista e produttore italiano Fabio Conversi. «Siamo un mucchio di femmine. E dire che ho sempre amato la compagnia degli uomini! Ma finalmente con questo nipotino so cosa vuol dire tenere un uomo in braccio!» Dice che non si è mai sentita minacciata dagli uomini, forse perché nella sua famiglia erano tutti «ammirevoli». Nell’epoca del femminismo, in cui i maschi venivano criticati in continuazione, lei li amava più che mai.
Il suo ideale da giovane era il principe Myskin, L’idiota di Dostoevskij. «Volevo somigliargli, passare da idiota come titolo di nobiltà». Di Proust dice: «Mi ha mancata». Descrive i genitori come persone piuttosto speciali. Forse il loro screzio più importante è stato per il suo nome quando è nata. Il padre voleva chiamarla Jerusalem, la madre si è opposta. «Peccato; non mi sarebbe dispiaciuto chiamarmi Gerusalemme». Comunque questi genitori l’hanno educata alla libertà e al romanticismo. «Mio padre faceva uno degli ultimi mestieri romantici: ufficiale a cavallo! Era il tipo che se a scuola la maestra mi diceva una sciocchezza, non cercava di difenderla, ma insisteva perché ragionassi con la mia testa».
Così lei è cresciuta indipendente, e contraddittoria. «Rivendico la possibilità di esserlo. Ecco un’altra caratteristica che ammiro in Duras: il suo non essere per niente borghese, il suo coraggio di opporre sempre ai luoghi comuni della società una visione autonoma, contraddittoria ma vitale, trasgressiva, spiazzante. Un’estremista che ha messo lirismo nella vita. Un’esagerata. Anch’io lo sono, il suo esempio mi fa sentire meno sola. Ettore Scola, quando giravamo La famiglia, mi attaccava sempre dicendomi che sono “retorica”. Voleva dire esclamativa, esagerata appunto. Non lo nego: sono proprio così. Quando Duras ha vinto il Prix Goncourt con L’amante, ci sono rimasta male. Adesso, ho pensato, sarà letta da un sacco di gente che non capisce niente di letteratura, quelli che leggono solo i romanzi che vincono i premi!» Le chiedo delle figlie, se è estrema anche con loro e se si è posta il problema che educarle voleva dire inevitabilmente imbrigliarle: Duras si riteneva una cattiva madre, perché aveva sempre viziato troppo il figlio…
«Io credo nei dieci comandamenti, penso che bisogna credere nel bene e nel male anche se non si crede in Dio» risponde. «Le mie figlie le ho educate a questo e alla libertà di pensiero. Viviamo in un’epoca particolarmente cogliona – dice proprio così: cogliona, in italiano – in cui domina un assurdo moralismo. Ci affliggono con una serie di regole e prescrizioni: i ciechi non li puoi chiamare ciechi, non devi fumare, passi per pedofilo se accarezzi un ragazzino… Dovunque ti giri, c’è sempre una Lega che difende qualcosa… E il risultato qual è? Che l’essere umano reagisce con un ego ipertrofico per tentare di opporsi a questo muro di dettami invalicabili, di regole che lo mettono all’angolo e lo fanno marciare come un soldatino, in un’autonomia solo apparente». Dice che, se non avesse fatto l’attrice, le sarebbe piaciuto buttarsi in politica. Ma sarebbe stata una scalmanata, non sarebbe riuscita a farlo tiepidamente. E dunque, meglio così. Meglio che abbia fatto l’attrice e basta. E poi, quale partito avrebbe apprezzato le sue idee stravaganti? Lei, per esempio, non crede nella giustizia. O almeno crede che il perdono sia più forte della giustizia. Perché «il perdono è la qualità più alta dell’essere umano: ne fa un re».
Mentre si alza per infilarsi il cappottino scampanellato, stretto in vita, corto come la gonna al ginocchio che indossa sui collant neri infilati dentro stivaletti pure neri, c’è tempo per un’ultima domanda. L’amore, dunque, è declinabile come capacità di perdono? E’ un sinonimo?
«L’amore è un assoluto. Nessun amore può competere con l’Amore, diceva Duras. Però i nostri singoli amori, per quanto non durino in eterno, fatti di molta imperfezione, sono tentativi di avvicinarci a un assoluto. E dunque, anche se i singoli amori finiscono, non tutto va perduto: i tentativi si accumulano e siamo un po’ più vicini all’ideale ogni volta, no?»