Duras e Alain Resnais (dal romanzo MARGUERITE in libreria il prossimo 3 aprile)
Sempre in quel fatidico 1958 cominciavano le riprese di Hiroshima mon amour. Marguerite era rimasta, come tutti, fortemente impressionata da Notte e nebbia, il documentario sull’olocausto di Alain Resnais, che ora voleva cimentarsi per la prima volta nel lungometraggio, senza abbandonare l’impegno sociale nel quale si era affermato. Aveva avuto una proposta e finanziamenti per un film intorno all’esplosione atomica di Hiroshima e preferiva che il punto di vista fosse femminile. A chi rivolgersi per la sceneggiatura? Il primo nome che gli venne in mente fu quello inevitabile di Simone de Beauvoir, ma lo scartò subito proprio perché era scontato. Qualcuno gli suggerì Françoise Sagan, andava molto di moda e quindi avrebbe sollevato il massimo rumore intorno al film. Resnais, però, era reduce dalla lettura di Moderato cantabile che gli era piaciuto moltissimo, quanto Il marinaio di Gibilterra. A teatro aveva visto Square già nella prima messinscena, ridotta, quella del ‘56, e se n’era entusiasmato. La sua sceneggiatrice doveva essere Marguerite Duras.
S’erano incontrati da lei davanti a due bottiglie di birra e piaciuti immediatamente, a pelle. Cercavano di capire come impostare un film che minacciava di rivelarsi impossibile: dovevano costruire, evitando la retorica, una trama intorno a un’immensa tragedia collettiva.
«Bisognerà allontanarsi dalla Storia e raccontare singole storie» aveva proposto lei.
«Mi pare di sì; sarebbe improponibile, al di fuori di un documentario, parlare direttamente di Hiroshima. Che si fa? Da dove partiamo?»
«Ci penso».
Due settimane dopo l’aveva richiamato. Era pronta con un primo dialogo fra una francese e un giapponese nudi a letto in una stanza d’albergo di Hiroshima. Si amano e parlano della città, del Museo della Pace che lei ha visitato e che è stato inaugurato da poco. Sarà una storia d’amore. Le storie d’amore esistono anche quando l’umanità è travolta dalla tragedia e dalla disperazione. «La gente continua a fare la propria vita, mentre passano in cielo aerei pieni di bombe» aveva convenuto Alain «anche adesso che ci crediamo in pace e siamo ostaggi della Guerra Fredda». Marguerite, a quel punto gli aveva chiesto di tirare dentro al progetto Gérard, ma su una cosa il regista era stato irremovibile: non lo voleva come co-sceneggiatore, perché «si deve sentire soltanto la voce di una donna». Allora insieme avevano trovato la soluzione: Jarlot sarebbe comparso come “consulente letterario”. Non aveva alcun bisogno Margot di un consulente letterario, oltretutto Resnais l’aveva invitata a scrivere pensando al teatro e non al cinema, ma tenersi il suo compagno accanto la faceva sentire ispirata. Ricorreva continuamente al ricordo dell’inizio del loro amore. “Tu mi piaci. Che evento. Tu mi piaci!” e questo li riportava indietro, riaccendeva i sensi addormentati con una nuova tenerezza. “Mi uccidi, mi fai bene”. Un uomo e una donna che s’incontrano in un luogo tragico ognuno con le sue segrete catastrofi e s’innamorano e si fanno del male e si fanno del bene perché appartengono a due universi lontani, ma comunque si sono incontrati, e si sono piaciuti e lui è diventato testimone di un segreto sepolto in lei, mai raccontato prima. Lei deve tornare a Parigi, al suo matrimonio, ai suoi figli. Lui deve restare a Hiroshima, dove ha una moglie che ama, un bel lavoro. Ma non riescono a rompere l’intimità sconvolgente e dolorosa che si è creata, non riescono a separarsi.
Non voleva, non poteva escludere Gérard da qualcosa che lo riguardava così strettamente e da un’impresa che avvertiva in modo oscuro come una nuova svolta nel suo cammino. Non si sbagliava. A Cannes, nel ‘59, l’anno in cui si afferma la Nouvelle Vague, Hiroshima mon amour, presentato fuori concorso perché la produzione teme possa dare fastidio agli americani, si aggiudica un premio internazionale della critica e uno per la sceneggiatura. Soprattutto si trasforma subito in un’opera di culto per l’invenzione di una nuova grammatica cinematografica nel montaggio raffinato come nella scrittura. Claude Chabrol dichiara che non si vedeva un film così bello “da cinquecento anni”. Jean Cocteau lo definisce meraviglioso, François Truffaut e Jean-Luc Godard ne sono entusiasti. L’anno successivo sarà candidato agli Oscar aprendo a Marguerite la strada per farsi conoscere negli Stati Uniti, anche se le resta l’amarezza di non aver firmato un contratto a percentuale e dunque non godrà finanziariamente dell’inaspettato successo planetario del film.
«La mia solita, radicale incapacità di fare i soldi» brontolava con gli amici, forse ancora ossessionata dal fantasma materno, dall’insuperabile bisogno di dimostrare a Marie che anche con la scrittura si poteva diventare ricchi, “milionari” come diceva lei.