Recensione a Ultimo requiem (Unità, 7/3/14)
Una documentazione sterminata, fra articoli di giornale, testimonianze ai processi, sentenze passate in giudicato. Tredici anni di storia italiana, dalla strage di Bologna alle bombe dei primi anni Novanta. Dove la cronaca non può concatenare l’attentato a papa Wojtyla con l’arresto di Totò Riina o con le ingerenze del Kgb o con l’assassinio di Giovanni Falcone o quello di Paolo Borsellino, per arrivare fino a Tangentopoli e la caduta della prima Repubblica, può un romanzo. S’intitola Ultimo requiem (Longanesi, 400 pagine, 16,40 euro) e ricostruisce in un quadro del tutto plausibile il mosaico di responsabilità, depistaggi, interessi che in quegl’anni insanguinati hanno rimescolato i fatti fino a far evaporare la verità in una nuvola di fumo.
Ad appassionarmi alla lettura non è stata, però, la curiosità di sapere o almeno di convincermi che le cose fossero andate proprio come ce le raccontano gli autori, Mimmo e Nicola Rafele, padre e figlio, di professione più sceneggiatori che scrittori, forse, fin a questo libro e da qui in poi, forse, più scrittori che sceneggiatori. La vicenda narrata, infatti, a un certo punto e molto rapidamente, prende il lettore trascinandolo nel gioco romanzesco dove non importa che la trama ripercorra una storia reale, conta l’intreccio, contano i personaggi e l’emozione. I personaggi sono tanti, in certi casi li conosciamo. Andreotti è Andreotti, Salvo Lima è Salvo Lima. In altri sono inventati di sana pianta oppure calchi di commissari e mafiosi che hanno davvero attraversato la cronaca, ma di cui non potevamo sapere il privato senza immaginarne uno di fantasia. Carlo Settembrini della questura di Bologna, per esempio, o il magistrato Sergio Russo, o il grande burattinaio della finanza internazionale, di solida stirpe mafiosa, Matteo Sabato. E le loro mogli e fidanzate.
Faccio un passo indietro. Nicola Rafele lo ricordo adolescente, autore di un libro delizioso edito da Theoria, Infatti purtoppo. Diario di un quindicenne perplesso. Prometteva bene. Mimmo Rafele oltre ad aver fatto un suo bellissimo e sconsolato film sull’emigrazione italiana, Domani, tanti anni fa, ha lavorato come sceneggiatore con Gianni Amelio, Bernardo e Giuseppe Bertolucci; ha firmato le ultime tre stagioni della televisiva Piovra e altre serie importanti (fra cui una proprio su Paolo Borsellino); con Giancarlo De Cataldo, nel 2009, ha scritto il romanzo La forma della paura (Einuadi Stile Libero). Insieme, padre e figlio, per provare a immaginare cos’è davvero successo in Italia nella quindicina d’anni che volevano raccontare, hanno redatto scalette su scalette, hanno discusso a lungo, proprio come si fa quando si deve costruire un film. Ma poi si sono messi a scrivere, ognuno per conto suo, con revisione dell’altro a fasi e capitoli alterni, e hanno frugato nell’umanità, normale o perversa, giusta o deviante, generosa o criminale dei loro protagonisti.
Senza eludere gli inevitabili cliché che un romanzo del genere impone, Ultimo requiem li piega alle necessità della trama e li contiene dentro una visione del mondo amara, che sorprendentemente accomuna i personaggi “buoni” e quelli “cattivi”. Il grande modello è American tabloid di James Ellroy, e naturalmente un classico non prescindibile come Il padrino. Ma a impostare la visione sulla società, che ci è toccata in sorte, è stato fondamentale, per dichiarazione degli stessi autori, il saggio di Saverio Lodato e Roberto Scarpinato Il ritorno del principe (Tea). Le grandi scene collettive della classe padrona che festeggia i suoi misfatti nella lussuosa normalità della ricchezza e del potere a me hanno ricordato alcune fastose pagine del Falò delle vanità di Tom Wolfe.
«A ogni personaggio manca qualcosa, sono tutti mossi da un rovello, sia che siano dalla parte della giustizia, sia che vi si contrappongano» spiegano gli autori. Ed è proprio nelle pieghe di ciò che resta irrisolto della psiche umana che secondo me si nasconde la trama segreta di questo romanzo. Persino negli incontri sessuali dei due protagonisti negativi, Matteo Sabato, il più intelligente di tutti, intelligentemente spietato e a suo modo raffinato, e la sua bellissima moglie, Eva, ex prostituta d’alto bordo, che si orienta nel mondo secondo il flusso dei soldi col passo di una leonessa che deve proteggere la prole, c’è una stilizzazione che ribalta letterariamente la proposta scontata del boss e la mignotta in grado, insieme, di fare scintille.
«Abbiamo immaginato i loro amplessi come la simulazione di una danza guerresca» spiegano Mimmo e Nicola Rafele. «Una coreografia di lotta in cui però si agita qualcosa di vero e profondo perché Matteo e Eva si amano sul serio». Come due divinità capaci di fare polpette del mondo, ma che di quel mondo conoscono, filosofi naturali, l’inevitabile scacco nel comune destino di vittime degli esseri viventi, malgrado tutto e insieme a tutti gli altri.