A proposito di Duras (Left, 29/3/14)
«Tutti mi conoscono e nessuno mi legge, la critica parla tanto dei miei film e nessuno va a vederli» si lamentava Marguerite Duras, prima che un suo romanzo dell’84, L’amante, la trasformasse in autrice di best-seller. La sua parabola artistica è fra le più sorprendenti. Dopo essere stata considerata per quattro decenni – a partire dal romanzo d’esordio, Les impudents, del 1943 – una scrittrice per pochi e poi una cineasta di nicchia, al limite del comprensibile, adorata dai cinéphiles di mezzo mondo, ma sconosciuta ai più, arriva all’apice della notorietà diventando un’eroina romantica confusa col personaggio di quel suo celebre libro. Lei stessa avvalorò la confusione ammettendo in un’indimenticabile intervista televisiva (Apostrophes, con Bernard Pivot) che quella storia d’amore le apparteneva profondamente, era la storia della sua iniziazione sessuale, la storia scandalosa di una minorenne di razza bianca che nel 1930 si fa amare dal cinese Léo nel rigido, moralistico ambiente delle colonie francesi in Indocina, dove gli scambi erotici fra razze diverse erano un enorme tabù. Come Giulietta e Romeo i due amanti saranno separati dalle famiglie, per la ferma volontà del padre di far sposare il figlio con una cinese della sua condizione sociale e per l’accondiscentende patto della madre di lei di portare Marguerite via con sé, in Francia, per almeno un anno – il tempo delle nozze di Léo – in cambio di una certa somma di denaro che le servirà per farla studiare e sistemarsi tutti, lei e i tre figli, in un’agiata casa a Vanves, quartiere periferico a sud-ovest di Parigi.
Lo scandalo accompagnò sempre la vita di Duras. Quando nel 1950 fu espulsa dal partito comunista francese, insieme al marito Robert Antelme, all’amante Dionys Mascolo e a un pugno di altri amici – fra loro lo storico e filosofo Edgar Morin – marxisti convinti, ma non allineati sui diktat sovietici in materia d’arte e di morale – l’accusa di disubbidienza da parte del Partito ebbe quanto a lei un’aggravante: fu tacciata di essere una «donna di facili costumi, una ninfomane». Effettivamente la sua vita sentimentale era molto movimentata. Lo era sempre stata. Tutto il loro gruppo, detto di rue Sainte-Benoît dall’indirizzo parigino degli Antelme, dove fin da prima della guerra si tenevano riunioni politiche e letterarie che scivolavano allegramente in cene e balli, aveva abitudini piuttosto libere e non considerava sacra la fedeltà coniugale. Questo confliggeva fortemente con l’esaltazione della famiglia del rigido comunismo di quei tempi e con il radicato sospetto che la musica jazz insieme a quella d’avanguardia e certa letteratura, soprattutto se di provenienza americana, fossero arte degenerata.
Fu una ferita profonda l’espulsione per Duras, perché infrangeva uno dei suoi sogni più coltivati: cambiare il mondo con la politica. E nel contempo finiva per confermare l’altrettanto radicata convinzione che nulla ha senso e che l’umanità è condannata: non ci si può sottrarre al destino di rovina e di perdita delle cose. L’amore, da lei tanto inseguito nella vita e costantemente presente nell’opera, è la grande metafora della condizione umana, mossa dalle illusioni, ma inevitabilmente lanciata verso la sconfitta. «Resta il ricordo di una solitudine vista in sogno» dice in un bellissimo racconto: Alle dieci e mezza di sera, in estate riecheggiando la famosa canzone di Trenet Que reste-t-il de nos amours, che le piaceva tanto.
Anche la bellezza fu un dono breve. In La mia Parigi, i miei ricordi (Raffaello Cortina Ed.) proprio Morin la descrive così nello splendore della giovinezza: «ape regina e fata della casa. E’ totalmente donna: cuoca, padrona di casa, scrittrice e anche bellezza fatale. Marguerite ha un corpo gracile da adolescente, ma un viso splendido per l’ovale, la bocca e lo sguardo. Ha un aspetto euroasiatico». Lei tornava spesso sulla perduta bellezza: «Presto fu tardi nella mia vita» è una delle sue frasi-tormentone che dalle pagine dell’Amante è rimbalzata in mille citazioni. «E’ stato un invecchiamento brutale» scriveva ancora in quel libro. La Duras di quaranta, cinquanta, sessant’anni è una donna irriconoscibile rispetto alla grazia infinita del suo visetto liscio e tondo, dei lunghi capelli ramati leggermente ondulati che raccoglieva dietro le orecchie, delle gambe sottili e dei seni acerbi dei vent’anni. E’ una fisarmonica che si allarga e si deforma a seconda della quantità di alcol che ingurgita. Quando appare ad Apostrophes è una matrona infagottata dentro un dolcevita bianco e un gilet nero (l’uniforme-Duras la definiranno). Il viso è gonfio, i capelli maltagliati, le dita troppo cariche d’anelli. Ma la voce è meravigliosa: bassa, sensuale, seducente. Seducente è lo sguardo: quello di una donna molto sicura del proprio fascino. E infatti, fino alla fine, sarà una seduttrice, e non solo con le parole. L’ultimo compagno, Yann Andréa, aveva ventidue anni quando la conobbe nel ’75 e cominciò a scriverle per anni. Solo nel 1980 Duras gli rispose. Restarono insieme, in un rapporto molto turbolento, fino alla morte della scrittrice nel 1996. Si devono a Yann due bellissimi, sconcertanti libri su Duras: M.D. (Feltrinelli) e Questo amore (Archinto).
Altro scandalo quella relazione tanto sbilanciata, in cui lui – si seppe presto – era quasi completamente omosessuale. Ma di più facevano scandalo le posizioni pubbliche che Duras prendeva rispetto a eventi cruciali della storia francese: contro De Gaulle e la Guerra d’Algeria, al fianco degli studeni nel ’68, a favore dei carcerati e persino di una madre accusata di aver ucciso il figlioletto. Poi ci furono le tante invettive che scagliava contro la pubblicità, contro il sistema commerciale dell’industria culturale e delle case di produzione cinematografiche, contro i tanti critici che non riconoscevano il suo talento. «Donna violentemente libera e audace» la descrive in Parigi non finisce mai (Feltrinelli) Enrique Vila-Matas che fu affittuario della sua soffitta in rue Sainte-Benoît, quando era giovane e squattrinato. E il poeta José-Miguel Ullàn (dentro lo stesso libro di Vila-Matas) ne dà un ritratto vivissimo: «Marguerite non smetteva di fare domande. Seminava zizzania e persuasione, melodramma e comicità. Esigeva a gran voce che le si desse ragione quando non lo desiderava veramente. Passava dal bicchiere alla sigaretta, dalla tosse spasmodica a pause interminabili. Si strofinava le mani cariche di anelli, giocava con gli occhiali o improvvisava una lieve civetteria con l’aiuto del foulard. Rideva e piangeva spesso».
Per molti è stata un mostro di narcisismo e di egocentrismo. Un’esaltata che parlava di sé in terza persona dandosi del genio da sola e che rompeva collaudate amicizie per un’offesa solo presunta. Era l’antico senso di umiliazione che tornava a farsi dolorosamente sentire? Alain Vircondelet, suo primo biografo, discepolo e amico, la spiega così (in Rencontrer Marguerite Duras, Meun ed.): «Diceva cose sfavillanti dentro la chiarezza brutale dell’intelligenza. Un’intelligenza che non era di quelle comunemente accettate. Partecipava di un’altra luce, lei, rispetto alla ragione trionfante. Partecipava allo splendore che permetteva d’illuminare gli spazi più remoti, quelli quasi inaccessibili». Quelli di film misteriosi come India Song e di libri fondamentali come Una diga sul Pacifico, Il viceconsole, Il dolore.