Romain Gary, uno e bino (Il Foglio,12/7/2014)

Romain Gary, uno e bino (Il Foglio,12/7/2014)

images-5Di chi parliamo quando parliamo di Romain Gary? Le sue personalità sono molteplici, tutte affascinanti, a cominciare dai nomi. Quello vero, Roman Kacew, ne rivela le origini slave. Nato nel 1914, esattamente un secolo fa, a Vilnius. Sembra. Russo dunque, quando la Russia era un Impero, e più precisamente lituano, confine con la Polonia. Sembra, perché molto ha fatto per mescolare le acque, confondere, scherzare, mentire. Genitori ebrei aschenaziti; ma la madre, Mina, semper certa est, il padre chissà. Forse invece il padre fu un celebre attore teatrale dei tempi (cui in effetti somiglia come una goccia d’acqua), un fascinoso alla Rodolfo Valentino, con cui sua madre – che aveva ambizioni artistiche e per un periodo calcò il palcoscenico in ruoli secondari – ebbe una storia breve e travolgente. Ma forse no. Forse è solo letteratura, quella consegnata, per esempio, alle pagine di un romanzo autobiografico meraviglioso come La promessa dell’alba (tradotto in Italia, come tutti gli altri già editi o in corso di pubblicazione, da Neri Pozza) in cui traccia il ritratto indimenticabile di questa madre eccezionale un po’ picara, un po’ imprenditrice, dalle ambizioni sul figlio spropositate, grandiosa, eccessiva, amorosa.

images-9La promessa dell’alba (1960) verrà firmato Romain Gary, nome prescelto dopo lunghe estenuanti ricerche, valutazioni, tentativi fra innumerevoli pseudonomi studiati insieme alla mamma, fermamente convinta che il figlio sarebbe diventato un nuovo Victor Hugo, ma anche un eroe militare, ma anche un travolgente seduttore. Cose che puntualmente si sarebbero realizzate. E con quel nome, che da una parte restava fedele alle radici, dall’altra convertiva in letteratura un mito cinematografico americano (Gary Cooper) tenendo presente però che in russo “gary” vuol dire “brucia” all’imperativo, Romain aveva già firmato diverse opere di rilievo, per esempio Educazione europea (1945) che Sartre definì il miglior libro francese sulla Resistenza. Francese, sì, perché intanto, trasferitosi ragazzo a Nizza con Mina, il giovane Romain si faceva (secondo le decisioni di quella madre diabolica e preveggente) pienamente francese e imparava – pur combattendo per loro e per la loro libertà – a «diffidare degli uomini». E nel 1960, se non proprio Victor Hugo, era però già riconosciuto in Francia autore fra i più interessanti, tanto che si era aggiudicato quattro anni prima il prestigioso Prix Goncourt con Le radici del cielo, un libro emozionante, struggente, profondamente – e in anticipo sui tempi – ecologista. Aveva quarantasei anni quando vinse quel premio. Laureato in filosofia, era stato naturalizzato francese nel ’35, aveva combattuto nell’aviazione fuggendo poi in aereo ad Algeri per unirsi alla Resistenza al fianco di De Gaulle. Pluridecorato per meriti di guerra era diventato in seguito un importante diplomatico e, in qualità di console, aveva girato il mondo, dall’Inghilterra agli Stati Uniti, parlando perfettamente diverse lingue.

Paul Pavlowitch, nipote di Gary, alias Emile Ajar

Paul Pavlowitch, nipote di Gary, alias Emile Ajar

Ecco, ho appena cominciato a raccontarlo e già la testa gira, già ci si perde nel labiritno della sua vita eccessiva. I nomi, dicevamo. Tralasciamo quelli meno significativi (Fosco Sinibaldi, Shatan Bogat…) con cui interveniva e polemizzava qui e là o pubblicava altri romanzi per depistare dal gran colpo che si apprestava a muovere all’establishment, e concentriamoci appunto su questo colpo magistrale: la grande beffa letteraria giocata ai giurati del Goncourt (che per legge può essere vinto da uno stesso autore una sola volta) quando riuscì ad aggiudicarselo di nuovo nel 1975, sotto falso nome, Emil Ajar (che vuol dire “brace” in russo), e con un’altra prodigiosa opera, La vita davanti a sé, in cui inventa una biografia e una lingua nuova, quella dell’emigrazione, che prima non aveva voce. Una lingua giovane, rocambolesca e di periferia, divertente e tenera, gergale e stradaiola, parlata dal protagonista, Momo, un ragazzino figlio abbandonato di una prostituta, cresciuto, come altri figli di nessuno, dall’ex tenutaria di bordello Madame Rosa con la quale stabilisce un rapporto preferenziale e commovente, grottesco e tenerissimo.

Da dove esce, chi è Emil Ajar e come ha fatto a ingannare i francesi in una creazione che solo la morte di Romain Gary e la pubblicazione di un testo postumo, Vie e mort d’Emile Ajar (1981), suo testamento letterario, ha svelato? Già perché ancora non ho detto che Gary morì suicida alla fine del 1980, programmando attentamente e teatralmente la sua uscita di scena, non solo andandosi a comprare una vestaglia rossa perché il sangue che lo sparo in gola avrebbe fatto sgorgare non impressionasse troppo chi avrebbe trovato il corpo, ma anche orchestrando la clamorosa rivelazione di essere lui Ajar. Lo fece scrivendo quell’ultimo libro nel 1979 e decidendo di spedirlo all’editore il 30 novembre dell’anno successivo perché lo pubblicasse dopo la sua morte.

Gary con Jean Seberg, sua seconda moglie

Gary con Jean Seberg, sua seconda moglie

Ajar nasce ufficialmente come scrittore nel 1974 con Gros-Câlin (letteralmente: Grande-Coccola, tradotto in italiano Mio caro pitone), storia stravagante di un uomo solitario che si affeziona a un serpente, scritto in una lingua diretta e scoppiettante, di cui questo passaggio è un esempio: «I miei genitori mi hanno abbandonato per andarsene a morire in un incidente stradale e sono stato messo prima in una famiglia, poi in un’altra, poi in un’altra ancora. Ho pensato mica male, farò il giro del mondo». Nessuno conosce la vera identità di Ajar a parte l’allora moglie Jean Seberg e Robert Gallimard, suo editor e amico, che terrà fino all’ultimo il segreto nella casa editrice e col Mercure de France, un marchio affiliato che pubblicherà il “nuovo” sconosciuto narratore. Quando tutto sarà rivelato ne nascerà un putiferio dentro e fuori la Gallimard. Anche perché il gioco va ben oltre il previsto. A un certo punto Gary manda in pista il figlio di una cugina carnale, molto più giovane di lui, Paul Pavlowitch, di cui si è preso cura fin da piccolo facendolo studiare in America, e che impersona Ajar per molti anni. Cadono nella trappola rinomati giornalisti che corrono in Danimarca, dove l’autore vive solitario, a fare lo scoop di interviste esclusive dopo affannate ricerche che emozionano il mondo letterario parigino. Cadono nella trappola i suoi stessi editori, i critici, i lettori. Il successo del bluff dipende in gran parte dal fatto che Pavlowitch si identifica a tal punto col personaggio che gli ha cucito addosso il suo zione, da interpretarlo alla luce del sole arrivando persino a occupare un posto da editor presso Mercure de France e disperdendo (apparentemente) le nubi del mistero. Tanto più che, quando due giornalisti scoprono la parentela fra Romain e Paul, Gary non si scompone. Si mette a scrivere Pseudo (sotto l’identità di Ajar) in cui inventa uno zio violento e manipolatore, che gli somiglia, e analizza i misteri della creazione letteraria: così la realtà ridiventa letteratura, le carte si rimescolano e nessuno capisce più nulla della verità.

Ancora con Jean Seberg

Ancora con Jean Seberg

Pavlowitch ha poi rivelato in un suo proprio testo, L’homme que l’on croyait (Fayard, 1981), quanto la complessa macchina animata da Gary avesse finito per mettere lo scrittore in crisi profonda. Infatti Romain era rimasto vittima della sua stessa genialità: si vedeva messo sempre più da parte e considerato testimone di tempi che non interessavano più, mentre il suo sgrammaticato alter ego conquistava prepotentemente l’attenzione generale. A questo punto della storia aveva compiuto sessant’anni, era divorziato dalla Seberg e si sentiva assediato dalla decadenza e dalla vecchiaia. Qualche anno prima aveva dichiarato: «E’ difficile avere cinquantacinque anni all’esterno e dieci all’interno. E’ il mio caso». Nel ’75, proprio l’anno del secondo Goncourt, aveva pubblicato il suo romanzo forse più toccante, Biglietto scaduto, in cui un uomo innamorato di una donna di quasi quarant’anni più giovane, avverte con angoscia la propria deriva fisica e, incurante del fatto che lei lo ami disperatamente, si danna prima del tempo dell’abisso che scaverà fra loro il corpo incapace di rispondere col vigore della giovinezza.

Con il figlio Diego ai funerali della Seberg

Con il figlio Diego ai funerali della Seberg

Era stato – ed era ancora – un uomo bellissimo, dai sognanti occhi azzurri, e i lisci capelli portati sempre un po’ lunghi e spioventi, egocentrico, istrione, narciso. A dar retta alla prima moglie, la (pure lei bellissima) scrittrice inglese Lesley Blanch, che gli fu accanto per più di quindici anni e che ne ha scritto un memoir urticante, Romain, un regard particulier (éditions du Rocher) nel ’98, aveva un carattere insopportabile, meschino, nevrastenico, accentratore. Si erano conosciuti nel ’45 e lasciati quando lui, all’inizio degli anni ’60, si era innamorato della fragile Jean Seberg, diva americana divorata da un’infanzia infelice e dal senso di colpa di essere una privilegiata, schiacciata dallo star system come dalla convivenza con uomo altrettanto fragile, ma troppo superiore intellettualmente, geloso in modo parossistico e devastato dalla differenza d’età nella coppia. Un eloquente descrizione di questo difficile menage appare in un altro libro straordinario, Cane bianco (1970), grido di dolore a favore degli animali contro la stupidità arrogante, la violenza e l’ingiustizia degli uomini.

Con la prima moglie, Lesley Blanch

Con la prima moglie, Lesley Blanch

Si erano separati da nove anni quando la Seberg, indimenticabile interprete della Giovanna d’Arco e di Bonjour tristesse di Preminger, di A boute de soufle di Godard, si uccise nel ’79 con i barbiturici in una situazione oscura. Gary ne fu sconvolto e questo contribuì probabilmente a potenziare il suo isolamento, la sua cupa costante depressione. Nell’ultimo periodo era divorato dai sensi di colpa verso il suo passato eroico che, con l’invenzione di Ajar, pensava di aver tradito. Non faceva che scrivere compulsivamente, con angoscia, si sentiva ormai un «incantatore disincantato». Con il figlio avuto dalla Seberg, Alexandre Diego, non aveva mai saputo creare un rapporto intimo, affettuoso. Era stato, a detta di Diego: «una presenza distante. Si sforzava di mostrarsi interessato, ma era sempre da un’altra parte».

Dell’uomo non è possibile giudicare, ma dell’artista sì. Che scrittore era Romain Gary? Colto, originale, spiritoso, generoso, autentico, sorprendente, commovente. Basta leggere uno a caso fra i brevi racconti raccolti in Una pagina di storia (ultima recente pubblicazione italiana presso Neri Pozza) per farsene un’idea. Bastano le figure intirizzite del vecchio e della bambina cieca in una piazza deserta di Amburgo in «Gli abitanti della terra» per non avere dubbi. Gary sa raccontare l’ipocrisia, la mediocrità, la violenza e la stupidità degli uomini come pochi altri scrittori. E sa raccontare la loro pazienza e le loro illusioni. E sa raccontare l’amore. In alcune pagine memorabili di La promessa dell’alba lo vediamo alle prese con la sua dura educazione sentimentale: ha nove anni e lei, Valentina, ne ha otto. E’ una principessina malefica che lo sottopone a prove tormentose. Per lei mangerà scarafaggi, rischierà di cadere nel vuoto e finirà intossicato dalla gomma delle scarpe che divora sotto lo sguardo incredulo e inflessibile della bambina, per conquistarla dimostrandole di essere il più coraggioso, il più matto, il più innamorato.

Romain Gary in un'ultima foto prima del suicidio

Romain Gary in un’ultima foto prima del suicidio

Sì, Romain Gary, e con lui Emile Ajar, ha una visione potente e prorompente delle cose degli uomini. E delle donne. Forse per quella madre che aveva giganteggiato nel suo destino, riservava alle donne un posto d’onore, nella vita come nei libri. Le amava forsennatamente, idealizzandole e soffrendo come solo i grandi seduttori sono in grado fare. Degli uomini diffidava, delle donne aveva bisogno. In un’intervista alla radio una volta aveva detto: «La sola cosa che m’interessa è la donna. Non dico le donne, attenzione. Dico la donna, la femminilità» e i suoi libri ne sono pieni, di donne, di femminilità. C’è una profonda comprensione dell’universo femminile nella sua opera. C’è dolcezza e sbilanciamento e azzardo femminili in molte sue pagine indimenticabili, tenere come raramente sanno scriverne gli autori maschi, anche i più sensibili. Solo con gli animali, però, si sentiva al sicuro: «Il solo posto al mondo in cui si può incontrare un uomo degno di questo nome è lo sguardo di un cane» diceva. Aveva una compagna, Leïla Chellabi, anche quando decise di morire e fu lei a disperderne le ceneri in Provenza, a largo di Mentone, nel Mediterraneo, come aveva chiesto.

Nell’ultimo giorno della sua vita, quello che aveva deciso sarebbe stato l’ultimo, il 3 dicembre 1980, pranzò con Claude Gallimard come se niente fosse. Aveva smesso di fumare, ma fumò un sigaro. Poi da casa chiamò al telefono alcuni amici come per salutarli. Poi indossò la vestaglia rossa che aveva comprato per l’occasione e, prima di puntarsi contro la pistola Smith&Weston, scrisse un biglietto datandolo in modo misterioso Jour J. Forse voleva dire che quel giorno era il Giorno? Sotto scrisse lapidario: «Nessun rapporto con Jean Seberg». Qualcosa come il «Non fate troppi pettegolezzi» di un altro celebre suicida, Cesare Pavese.

Con Leïla Chellabi, ultima compagna

Con Leïla Chellabi, ultima compagna

In un’altra intervista aveva detto della vecchiaia: «Catastrofe. Ma a me non succederà mai. Invecchiare, m’mmagino, è una cosa atroce, ma siccome io non ne sarei capace, ho fatto un patto con quel signore lassù, sapete. Ho fatto un patto con lui per cui io non invecchierò mai». E infatti morì ancora bello, elegantissimo, ancora in grado – forse – di fare l’amore come sapeva che un giorno non gli sarebbe stato più possibile. E la frase che chiude il suo ultimo libro, Vita e morte di Emile Ajar, recita con la sua voce più leggera: «Mi sono molto divertito. Arrivederci e grazie».

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