Yann Andréa, l’amato da Duras (il Foglio, 2/8/14)

Yann Andréa, l’amato da Duras (il Foglio, 2/8/14)

Yann Andréa giovane

Yann Andréa giovane

Non ha nemmeno vent’anni Yann Lemée – che un giorno sarà ribattezzato Yann Andréa da Marguerite Duras – quando s’imbatte in Les Petits Chevaux de Tarquinia e da quel momento cade nell’incantamento della scrittura durassiana. “Una specie di colpo di fulmine” ha spiegato poi. “Da quel momento ho lasciato perdere tutto, tutti gli altri libri per non leggere che i suoi”. Non poteva immaginare che nel giro di un decennio non solo l’avrebbe conosciuta, ma ne sarebbe diventato “l’amante impossibile” rimanendole accanto per sedici anni, dal 1980 al 1996, fino alla morte di lei. Ora è morto pure lui, Yann Andréa, che la morte inseguiva da sempre, da prima che Duras piombasse come un uragano, come una strega ammaliatrice o come una boa di salvataggio nel suo destino demotivato e depresso. O forse fu lui a piombare nella vita di lei come un angelo di perdizione, come l’incarnazione dell’amour fou da Duras sempre corteggiato e descritto e celebrato nella quotidianità quanto in letteratura. E’ l’interrogativo dei grandi amori devastanti, quelle folies à deux che dall’esterno sono inconcepibili e che suscitano una vaga inquietudine se non orrore: chi dei due sottomette l’altro, chi dei due tiene davvero il bandolo di un rapporto inaudito, quasi impresentabile?

Yann e Marguerite

Yann e Marguerite

“Non c’era stato niente nella mia vita di più fuori norma della nostra storia, di Yann e mia” scrive Duras in La pute de la côte normande (1986). E dice di lui: “E’ completamente indecifrabile, imprevedibile”. In questo brevissimo racconto, spaccato dell’inferno che c’era fra loro, vediamo Marguerite che scrive tutto il giorno, e lui che passa le giornate lontano: cammina per ore e ore, va nei bar a bere, a dormire sui divanetti, a parlare con i barman stagionali argentini, brasiliani, cubani. Quando torna a casa, la casa di lei a Trouville, grida come un pazzo, la insulta. Non sopporta che scriva tutto il tempo (“Che te ne frega di scrivere tutto il giorno?” le chiede; dandole del voi, però, non del tu, non riesce a darle del tu nemmeno quando è arrabbiato). Non sopporta più niente di lei. Le dà della “folle che tutti abbandonano”, della “stronza”, della “puttana della costa normanna”. La picchia anche? Chissà. Duras parla genericamente di “violenza”. Yann, il dolce, silenzioso, sottomesso Yann, quando torna da quelle bevute nei bar coi ragazzi che forse rimorchia, forse no, perché non è in grado di viversi liberamente la sua omosessualità, urla e diventa cattivo. Al principio lei gli fa domande generiche, vedendolo così stravolto. “Ciao. Qualcosa non va? Preparo la cena?” Per tutta risposta lui le urla contro come un forsennato. Duras pensa che la voglia vedere morta. Ma poi capisce che non è questo il punto. Il punto è che “non è mosso da nessun progetto, se non quello di massacrare alla radice tutto ciò che potrebbe sembrare un incoraggiamento a vivere”.

Ora è morto come è vissuto: in disparte, misterioso. L’hanno trovato senza vita nell’appartamentino di Saint-Germain, nella stessa rue Saint-Benoît dove viveva lei, ma in un palazzo di fronte, un appartamento che Marguerite gli aveva regalato per concedergli un po’ di respiro, uno straccio di libertà (e concederli a se stessa probabilmente), ma dove lui si trasferì solo dopo averla perduta e sotterrata nel cimitero parigino di Montparnasse. E’ morto a sessantun anni. Di che, perché? Di alcol, di solitudine, di depressione in un lento suicidio sempre costeggiato, sempre dilazionato. Era nato nel 1952, ma in dicembre. Dunque aveva ragione a calarsi un anno: ne avrebbe compiuti sessantadue la vigilia di Natale, il 24, e siamo ancora in luglio. Siamo nell’anno centenario di Duras, nata nella colonia francese di Saigon il 14 aprile 1914, e Yann Andréa mancava completamente, stranamente, dalla scena dei festeggiamenti, degli incontri, dei convegni che la Francia sta dedicando a questa sua leggendaria, ingovernabile protagonista. Ma era tipo ombroso, solitario, scontroso, ultimamente era diventato anche buddista. Però, certo, strano che fosse sparito così…

Sulla spiaggia di Trouville

Sulla spiaggia di Trouville

Quando conosce Duras è un ventitreenne alto e allampanato, occhi grigi, capelli biondi. Bello. Ha qualcosa di Peter Handke. Occhialetti tondi sul naso come andava di moda in quegli anni. E’ il 1975. Studia filosofia all’università, senza costrutto. La ragazza con cui, insieme a un terzo amico, divideva un appartamento a Caen l’ha buttato fuori perché ha deciso che vuole far coppia con l’altro invece che con lui. Yann pensa di essere disperato, vuole morire. Medita di uccidersi. Poi succede una cosa entusiasmante: alcuni suoi amici cinéphiles invitano Marguerite Duras per una proiezione al Lux di un suo film-mito, India Song, che è uscito proprio in quell’anno e ha furoreggiato nei festival. Sanno che la scrittrice ha una casa in Normandia, a pochi chilometri da Caen, dove vive la maggior parte del tempo per scappar via da Parigi: dunque non rifiuterà. Non rifiuta mai nulla ai giovani ammiratori, malgrado il suo noto caratteraccio. E’ ancora una scrittrice per pochi, Duras, e una cineasta per pochissimi, ma quei pochissimi la mettono al centro di un culto speciale, la adorano. Arriva con la sua “uniforme Duras”, come la definiscono i giornalisti che non perdono occasione di dileggiarla o di adorarla (anche loro): maglione chiaro a collo alto e gilet di cuoio, gonna pied-de-poule, scarpe basse marca Weston a stivaletto. E’ bassina: un metro e cinquantadue. Porta i capelli corti e disordinati, fuma moltissimo e ha una voce rauca assai sensuale. Grandi occhiali dalla montatura nera, labbra carnose. Un’aria accigliata, ma quando ride torna bambina. Sessantenne o giù di lì, non è più attraente come nella sfolgorante giovinezza, ma ha un indubbio charme di cui è perfettamente consapevole. Gli studenti, dopo la proiezione, le fanno un mucchio di domande. Lei risponde generosa, autentica. Quel che dice risuona dentro Yann come tutto ciò che ha scritto e che lui ha letto e riletto con venerazione, pensando che, fino a quando potrà leggere un libro di Duras, vale la pena rimandare il suicidio. La sente amica, vicina, anima gemella. «Non m’interessano più i regimi, i governi, le ideologie. E nemmeno il marxismo. Non credo più a nulla, solo all’individuo. Non alla società, ma alla gente che la forma; m’interessano le persone una per una, e la loro sopravvivenza, libertà, grazia. La loro gioia di vivere», sta dicendo. E lui beve le sue parole. Quando uno studente le chiede qualcosa sull’esistenza o non esistenza di Dio, dice così: «Le risponderò come ho risposto a mio figlio quando mi ha fatto la stessa domanda. Che Dio non esista non ci deve rendere disperati, bisogna fregarsene. È l’uomo che ha creato Dio e la musica e la letteratura. L’uomo ha inventato le parole, questa cosa immensa che tiene insieme il mondo. Usciamo dalla prostrazione per l’inesistenza di Dio dunque, e usciamone sorridendo».

Nella casa di Neauphle

Nella casa di Neauphle

Anche Yann pensa che le parole siano tutto. E quelle di Duras in particolare. Così, quando dopo la proiezione si ritrova con gli altri in un bar seduto accanto a lei, vince la timidezza che lo paralizza da sempre e le chiede di firmargli un libro preso all’ultimo momento prima di uscire di casa. E’ Détruire dit-elle, pubblicato nel ’69. Adora ogni virgola di quel testo che inneggia alla distruzione totale perché: “Non c’è più nulla in cui credere”. Lei firma, intercettando il grigio sguardo ardente di lui. Yann si fa coraggio e insiste: gli darebbe l’indirizzo? Vorrebbe scriverle. Lei riprende il libro e aggiunge l’indirizzo: 5, rue Saint-Benoît, Paris.

Così comincia a scriverle ogni giorno, anche più bigliettini in uno stesso giorno. Lei non risponde. Non risponde quasi mai ai tanti che le scrivono. Però di quel Yann Lemée conserva le lettere. Per anni. Lui le racconta di sé, figlio di divorziati, del suo attaccamento alla madre. Dice di non leggere altro che Duras, ormai. Dice di passare ore disteso sul letto ad ascoltare la voce di Jeanne Moreau che canta India Song, il tango composto da Carlos D’Alessio per il film, le parole le ha scritte Marguerite: Chanson, toi qui ne veux rien dire, toi qui me parles d’elle… de cet amour là, de cet amour mort… È innamorato di una ragazza che non lo ama, che l’ha lasciato per mettersi con un altro, la ragazza che gli ha fatto scoprire quella scrittrice, quella Duras così incantatoria lasciando in giro per casa un suo romanzo meraviglioso, Les petits chevaux de Tarquinia

images-4Poi un giorno “la sventurata rispose”. Gli invia un racconto, L’uomo seduto nel corridoio, e lui ne resta scioccato. È la prima volta che rifiuta un testo di Duras, ma gli sembra osceno, non gli piace l’amore estremo che narra, la presenza esclusiva dei corpi, e si chiede perché lei glielo abbia mandato, proprio quello. Yann è sentimentale. Non può dirle che non le è piaciuto e così sospende di scriverle. Ma allora gli arriva un biglietto che accompagna l’invio di altri testi fra cui due Aurélia Steiner (Aurélia Malbourne e Aurélia Vancouver): «Ho scritto la seconda Aurélia per lei. Non la conosco. Leggo tutte le sue lettere. Le conservo. Sono stata male. Ho smesso di bere. Sto meglio. Voglio riempire il mio tempo facendo film. Sarò meno sola». E’ appena uscita da una disintossicazione da alcol, è l’estate 1980, un’estate in cui ha accettato di scrivere per Libération quello che vede dalla sua casa di Trouville, in televisione e dal vero, cronache in cui la storia di quei giorni – la fame in Uganda, gli scioperi in Polonia, la guerra russo-afghana – s’intreccia alle descrizioni della pioggia, del vento, del mare e alle vicende quotidiane di una colonia estiva di bambini con le loro sorveglianti, che la scrittrice osserva sulla spiaggia, e in particolare descrive un bambino dagli occhi grigi, in cui Yann trova qualcosa di sé. Marguerite vive in un palazzo storico della cittadina, l’ex Grand Hôtel proustiano “Roches Noires”, chi legge Libé lo sa, così gli è facile rintracciarla. Cerca il numero di telefono sull’elenco. La chiama. Vuole solo risentirne la voce, ma lei inaspettatamente gli propone di raggiungerla: «Si beve qualcosa insieme». E’ la fine di luglio. Le porta in regalo un disco della Callas, Norma, e si lascia prendere per mano in un giro turistico della casa, e poi in un giro turistico dei dintorni sulla Peugeot di lei: Honfleur, Le Havre. In macchina Marguerite guida e canta a squarciagola La vie en rose. Yann canta con lei, ma è stonatissimo e ridono come matti. Si fa tardi. “Non vorrà spendere i soldi per l’albergo” gli dice. “Può dormire qui”. Yann non riparte nemmeno il giorno dopo, né quello successivo. Il 2 agosto vedono in tv le immagini della strage di Bologna. Marguerite è sconvolta, si ritira a piangere nella sua stanza. La sera lui bussa alla porta: “Va meglio?”, le chiede. La stanza è affondata in una luce ovattata, quella della lampada che Duras ha schermato con un foulard. Fanno l’amore e non si lasciano più.

Duras col figlio Jean Mascolo

Duras col figlio Jean Mascolo

Anzi si lasciano in continuazione, ma per tornare insieme dopo tre giorni al massimo. In genere era lei a farsi venire dubbi, a non sopportare la situazione, quell’amore fuori norma e fuori tempo. Allora odiava l’abulia e la timidezza di Yann, gli dava del fannullone ubriacone, un frocio, una nullità. Gli metteva le cose in valigia e metteva la valigia fuori della porta, la scaraventava dalla finestra. “Che ci sta a fare con una vecchia? Se na vada. Mi lasci in pace. Li conosco io gli scrocconi, non mi faccio prendere in giro così”. Lui se ne andava, ma ritornava. “Non hai dignità”, lo sfotteva, però era sollevata. Se invece a rompere, a urlare, a dire basta, non ce la faccio più era Yann, lei lo implorava: “Non andare via. Come faccio senza il mio bambino impossibile?” Yann si rifugiava dalla madre, resisteva due o tre giorni. La richiamava piangendo: “Voglio tornare, non so che fare di me stesso altrimenti”. Andava di moda una canzone stupidissima estiva Capri, c’est fini, di Hervé Villard, in cui due amanti si lasciavano a Capri. Duras adorava quella canzone, ne aveva fatto una bandiera della loro storia. La ballavano, la cantavano insieme quando si ritrovavano dopo l’ennesimo litigio. “Ti amo, ti adoro” le scriveva lui, ma sempre dandole il voi. “Il mio piacere più grande è quando mi leggi una pagina appena scritta e il più grande dolore sarebbe non leggere più per primo una pagina scritta da te”.

Tutto questo, e la disperazione di una seduttrice – quale era sempre stata Duras – per un uomo dalla sessualità incerta che le sfugge fisicamente, lo si ritrova nei suoi libri, per esempio La malattia della morte o Yann Andréa Steiner o L’uomo atlantico o Scrivere… e in quelli di lui: M.D., Cet amour-là, Ainsi che sono molto belli, molto durassiani nello stile, quasi un calco della scrittura di lei. Quando Yann, che era sempre stato lontano dai riflettori, accettò nel 1999 di farsi intervistare in tv da Bernard Pivot nella celebre trasmissione culturale Apostrophes su Questo amore (pubblicato in Italia a Archinto) che racconta la relazione vista da lui, i francesi rimasero scioccati al cospetto della grande fragilità di questo ex ragazzo ingrassato dall’alcol, sempre sul punto di piangere, afasico, sconcertato e sconcertante che dopo la morte della scrittrice si era chiuso nel proprio appartamentino senza più uscirne per anni, ordinando la spesa al telefono, sperando di morire di inedia e di sbronze finché sua madre non era riuscita a tirarlo fuori e a farlo ritornare alla vita per gestire l’eredità che Marguerite gli aveva lasciato (10 per cento sui diritti e il ruolo di curatore letterario). Una decisione che aveva fatto arrabbiare il figlio di Duras, Jean Mascolo.

Ancora con Yann, gli ultimi giorni

Ancora con Yann, gli ultimi giorni

“Yann era diventato per lei qualcosa fra un figlio, un compagno, un carceriere, uno schiavo” mi racconta Leopoldina Pallotta della Torre, autrice di La passione sospesa (Archinto), una lunga intervista alla scrittrice francese che le richiese due anni di appostamenti, visite, incontri in rue Saint-Benoît, fra il 1985 e il 1987. “Sempre vestito di bianco, era di una disarmante gentilezza, con qualcosa di leggiadro e appesantito nell’aspetto in cui s’intuiva una passata avvenenza. Era sempre lui a rispondere al telefono, ad aprire la porta, a farmi entrare o a chiudermi il battente in faccia. A volte si sentiva la voce di Duras in un’altra stanza che imponeva: Di’ che non ci sono. E lui imperturbabile ripeteva: Non c’è”.

La tomba di Duras nel cimitero di Montparnasse

La tomba di Duras nel cimitero di Montparnasse

Insieme bevevano molto, troppo. Fino a quando lei, sotto il peso di sei litri di vino al giorno, si decise, nel 1982, dal 21 ottobre al 10 novembre, ad affrontare una dura terapia disintossicante. M.D. è il diario sorprendente, commovente, spietato di quei giorni in ospedale e poi a casa – dove Duras torna delirante – ma soprattutto è una conturbante dichiarazione di fedeltà e di adorazione. In Questo amore Yann analizza: “Morta per aver bevuto troppo, whisky, vino rosso, vino bianco, ogni sorta di alcolico, morta per aver fumato troppo, troppi pacchetti di Gitanes senza filtro, morta per aver amato troppo, gli amanti, ogni sorta di amanti, troppi tentativi di amore, di amore totale, mortale appunto, morta per la troppa collera contro le ingiustizie del mondo”. Ma alla morte era arrivata ben più tardi di quanto sarebbe accaduto senza quell’angelo-demone accanto. Yann Lemée Andréa Steiner, invece, non ha potuto contare su una presenza del genere e ha lasciato la vita prematuramente, a 61 anni, proprio l’età che aveva Duras quando si erano conosciuti in quel lontano 1975, a Caen.

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4 Comments
  • Antonella
    Rispondi

    Grazie. Di cuore.

    8 Giugno 2016 at 11:22
  • Ester de Miro d'Ajeta
    Rispondi

    Bell’articolo, molto fedele ai fatti. Ma Marguerite e Yann, al di là della letteratura, al di là del masochismo di lui (alcuni amici dicevano che lei era una megera che lo torturava; Yann era un essere sfuggente e in qualche modo ‘decostruito’, come quelle marionette che si sciolgono in pezzetti di legno se si allenta il filo). Certo hanno incarnato una coppia impossibile ed insieme mostravano al mondo l’impossibilità dell’amore.

    24 Agosto 2016 at 19:58
  • Ester de Miro d'Ajeta
    Rispondi

    Errata corrige: dopo la parentesi c’era “da cosa erano legati?”

    24 Agosto 2016 at 20:01

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