Ricordo di Giorgio Manganelli (nel volume “Cantiere Manganelli 2” edito dal Comune di Roma)

Ricordo di Giorgio Manganelli (nel volume “Cantiere Manganelli 2” edito dal Comune di Roma)

Lo scrittore Giorgio Manganelli

Quello che sto per dire di lui, troppo privato e protervo, temo lo farebbe inorridire. Ma lo dico lo stesso e me ne prendo la responsabilità. Giorgio Manganelli era una di quelle rare figure umane che meritano la qualifica di Maestro. Però attenzione, non nel senso minimo che si usa verso chi t’insegna la pratica artigiana di un qualche mestiere artistico. No, io dico proprio un Maestro di vita. A molti sembrerà un paradosso. Come sarebbe? Un nevrotico come lui, che ha elevato una cattedrale narrativa al baratro, all’inferno del disagio psichico, che di nevrosi è perfino morto, un Maestro di vita?
Era proprio il corpo a corpo col dolore che abitava i suoi giorni a renderlo sensibile al dolore degli altri. Ed era, in un modo tutto suo, soccorrevole. Ma come tutti i veri Maestri era anche capriccioso e si spazientiva facilmente: dovevi capire da solo la saggezza nascosta in un discorso e avrebbe negato recisamente di aver voluto ammaestrarti. Ma lo faceva, ed era così abile nel farlo che, dopo un incontro con lui, te ne tornavi a casa confuso e commosso con l’irritante eppure entusiasmante sensazione di una rara esperienza.
A saperlo leggere, a saperlo ascoltare, di insegnamenti spirituali sono pieni i suoi libri come ne era generoso nell’amicizia. Finché era in vita, pensavo di dovergli – oltre al dono grande della sua familiarità – l’aiuto che mi aveva dato leggendo lo scartafaccio di quello che sarebbe diventato il mio Navigazioni di Circe (titolo che mi suggerì lui). Mi aiutò a capire il mio «battito cardiaco» di scrittore, come diceva. Il mio respiro. Gliene sarò grata per sempre, anche se non sempre resto all’altezza di quell’insegnamento. Quando è morto, ho capito la vastità della sua anima. Non mi sono sorpresa di salutarlo in una chiesa, con una bella funzione funebre tenuta da un prete di cui si fidava e che forse l’aveva aiutato a saziare un poco la fame di cose ultime, fame che nascondeva anche agli amici più vicini per quel pudore che sempre dovrebbe accompagnare la nostra vita spirituale.
Non mi sono sorpresa di ritrovare quel suo lato segreto nelle bellissime Lettere ad Angiola, pubblicate postume, e che tanto insegnano sulla morte. Non corteggiava la morte, la rimuginava e le rendeva l’onore delle armi. Alla luce di queste considerazioni credo che anche i suoi libri acquistino un peso e una durata che, insistendo esclusivamente sulla lingua meravigliosa in cui sono scritti e sulla temperie culturale che li influenzava, si rischia di sminuire.
In una dedica a “Tutti gli errori”, mi scrisse: «S’intacchini, la prego!» scherzando sul fatto che gli avevo detto che la sua considerazione per me scrittrice mi riempiva di orgoglio (qualcosa che lui fustigava: l’autodefinirsi scrittore lo faceva ridere). Ma visto che mi ha dato il permesso, continuo a far la ruota, a impancarmi come fanno i tacchini, a essergli soprattutto infinitamente grata per avermi regalato un poco del suo tempo e della sua stravagante unicità.

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