Patrick Modiano (LEFT 18-24 ottobre ’14)

Patrick Modiano (LEFT 18-24 ottobre ’14)

Patrick Modiano

Patrick Modiano

In una canzone scritta nel ’68 per Françoise Hardy, Etonnez-moi, Benoît, Patrick Modiano mostra una vena sorprendentemente allegra: una ragazza chiede a tal Benoît di camminare sulle mani, ingozzarsi di lamette, tagliarsi le orecchie e cose del genere, perché con lui si annoia da morire e pensa che, se va avanti sui soliti binari, la loro storia non durerà a lungo. Sono un po’ tutti divertenti i testi delle canzoni (una trentina) che ha composto nel corso degli anni e mostrano una personalità più sfaccettata di quella che la leggendaria timidezza, il temperamento schivo, il parlare spezzato, al limite dell’afasia, suggeriscono generalmente dello scrittore francese, ora Premio Nobel. Come se il mondo della musica leggera gli permettesse di sospendere l’ossessione di perlustrare il vuoto, il passato, la morte, la scomparsa, che esprime ogni pagina della sua opera fin dal romanzo d’esordio, La Place de l’Etoile. Era sempre il ’68. Modiano aveva ventiquattro anni e suscitò subito l’interesse della critica.

Françoise Hardy nel '68

Françoise Hardy nel ’68

La parola ossessione è dunque quella che meglio lo descrive. Il suo editore, Robert Gallimard, disse che non aveva conosciuto nessun altro autore indifferente al successo come Patrick Modiano, che pure il successo l’aveva avuto presto: a trentaquattro anni vinse il Goncourt con Rue des Boutiques Obscures e continuò a scrivere come aveva sempre fatto, indagando ossessivamente nei misteri di esistenze che non sono la sua, ma potrebbero esserlo, senza peraltro arrivare mai a dissolverne le nebbie, sul filo di un’autobiografia abitata da troppi fantasmi per essere limpida e rivelatrice. Continuò a vivere defilato, a evitare le comparsate televisive e i festival di letteratura che si profilavano all’orizzonte, a difendere la sua vita privata e a rispondere alle domande, quando decideva di farlo, con quella sua voce dolcissima, le mani danzanti ad accompagnare le parole, una concentrazione impressionante nello sguardo che neanche gli occhiali, comparsi sul suo bellissimo viso con l’età, sono riusciti a disperdere.

Se ci sono occhi di scrittore che assomigliano all’opera sono quelli di Modiano, occhi neri molto tristi, si direbbe spaventati da ciò che vedono, occhi scurissimi che guardano oltre la realtà le ombre di un’infanzia e di una giovinezza terribili, trascorse nell’abbandono dei genitori («I miei poveri genitori che non mi avevano fornito alcun sostegno morale e mi lasciavano con le spalle al muro» ha scritto in Un pedigree, Einaudi). Sono sempre altrove quei genitori, e i due figli, Patrick e il più piccolo Rudy, crescono con i nonni materni e poi presso altre persone, e in collegio. La madre, attrice di scarso rilievo, abbandonata dal marito, è sempre via in tournée. L’assenza del padre lo segna particolarmente, un padre di cui poi, indagando la vita, scoprirà pesanti compromissioni collaborazioniste. E c’è il trauma per la scomparsa di Rudy che a dieci anni si ammala di leucemia e lo lascia in una settimana.

Modiano da giovane

Modiano da giovane

Rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano nei giorni scorsi la prima reazione alla notizia del Nobel, Modiano ha detto con il consueto candore: «A me sembra di aver scritto un unico libro nella vita». E’ molto vero. Nella sua opera c’è una rara compattezza, al limite della monotonia, o semplicemente della maniacalità: una quest infinita di passi perduti, persone scomparse, familiari o sconosciute, inseguite attraverso indirizzi, strade, caffè, labili tracce che non portano a nulla in una dettagliata toponomastica superata dai cambiamenti che il tempo attua per cancellazioni successive. Il periodo è sempre quello della guerra col suo quotidiano olocausto, gli anni dell’occupazione, a Parigi (è così anche nella sua sceneggiatura più famosa, quella del film Lacombe Lucien di Louis Malle). I luoghi lo ossessionano, li descrive dettagliatamente, quasi fossero, almeno loro, un appiglio, qualcosa di un po’ meno fantasmatico: «Questi vicoli sono vicini a rue de Picpus e al Collegio del Sacro Cuore di Maria, da dove Dora Bruder sarebbe scappata una sera di dicembre in cui forse su Parigi era caduta la neve» (Dora Bruder, Guanda).

Si è detto che la sua originalità sta nel particolare uso che ha fatto della ricerca storica, sovvertendo il rapporto fra fiction e documento, ma la più forte descrizione del proprio modo di lavorare l’ha data lui stesso: «Interrogare i documenti quando scrivo è come girare intorno al bordo di una piscina temendo l’acqua fredda, rimandando il momento di tuffarsi». Ossia di scrivere.

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