Incontro con Jamaica Kincaid (Il Foglio 15/11/’14)

Incontro con Jamaica Kincaid (Il Foglio 15/11/’14)

«Cosa ho fatto negli ultimi tempi: ero a letto e suonò il campanello. Corsi di sotto. Svelta. Aprii la porta. Non c’era nessuno. Uscii. O piovigginava oppure c’era un’aria piena di polvere, e la polvere era umida. Tirai fuori la lingua e la pioggerella o la polvere umida sapevano dell’inchiostro della scuola statale. Guardai a nord. Guardai a sud». Scriveva già così Jamaica Kincaid, lapidaria e misteriosa, quando nel 1978 cominciò a collaborare al New Yorker con brevi storie poi raccolte in In fondo al fiume. Erano i tempi di un mitico direttore, William Shawn (adorato da Salinger che gli dedicò Franny and Zooey). Shawn era rimasto colpito dall’originalità di quella giovane, piovuta come ragazza alla pari nella casa di un importante collaboratore della rivista, e fu lui a introdurla nell’esclusivo mondo editoriale newyorkese. Kincaid non aveva ancora trent’anni e realizzava un desiderio inseguito con determinazione contro tutto e tutti da quando era venuta via da Antigua, nelle Piccole Antille, dove era nata nel 1949, quando si chiamava Elaine Potter Richardson, nome che poi cambiò per rompere i ponti, come scrittrice, con un’identità che non le corrispondeva, una famiglia che non l’aveva capita, una madre da cui si era sentita disprezzata. «Quella famiglia che non potevo fare a meno di avere» la definì con desolazione in Mio fratello.

Il leggendario William Shawn nella redazione del New Yorker

Il leggendario William Shawn nella redazione del New Yorker

«Non è che “sono venuta via da Antigua”. Ne sono stata scacciata. Ero molto brava a scuola, ma mia madre decise di non investire sulla mia intelligenza. C’erano pochi soldi e tre figli più piccoli di me, maschi, da portare avanti. Sognavo di andare all’università e di diventare professore un giorno. Spezzò i miei sogni, mi spedì in un sobborgo di New York come ragazza alla pari diciamo, in realtà a fare la domestica, non solo a occuparmi di bambini. Fu una ferita profonda», racconta sorseggiando uno dei cento cappuccini che non può fare a meno di bere durante la giornata, in particolare quando è in Italia. Nel settembre scorso il suo più recente soggiorno: a Pordenone, invitata al festival letterario Pordenonelegge. L’accompagnava un’amica di vecchia data, Candy, una signora dalla pelle molto chiara, i tratti artistocratici e il sorriso aperto, la sua amica del cuore, con cui viaggia volentieri, soprattutto da quando è finito dodici anni fa il suo più che ventennale matrimonio con il compositore Allen Shawn, figlio di William. C’è un matrimonio finito anche nel suo ultimo romanzo Vedi adesso allora, scritto dopo dieci anni di silenzio e pubblicato in Italia, come tutti gli altri, da Adelphi (nella intensa traduzione di Silvia Pareschi). «Anni in cui non ho pubblicato, il che non vuol dire che non ho scritto» mi fa osservare. Scrive con lentezza. Una volta ha impiegato sei mesi a completare una frase che non le veniva.

«Penso ancora che la letteratura non sia intrattenimento. La letteratura oggi negli Stati Uniti è l’ombra di se stessa, come ovunque probabilmente. E’ molto triste. Gli scrittori riempiono i libri di stereotipi. In realtà non amano l’arte, sembra che non sappiano più quanto scrivere sia in rapporto con l’insconscio, col mistero, con ciò che non sappiamo. Non è una carriera scrivere. Non si apprende a scuola, non è come costruire un tavolo e non è che uno si mette a scrivere perché scrivere è figo, perché va di moda, per diventare ricchi o famosi. Io scrivo perché devo dire le cose a modo mio, le cose che stanno dentro la mia testa, le cose come le vedo nella loro a volte terribile autenticità. Ma insomma ci capita di vivere questi tempi, e dunque pazienza, viviamoli. Accettiamo che passino per grandi scrittori autori anche pieni di talento, ma che mettono il talento al servizio di cose insignificanti». Fa i nomi, ma mi chiede di non citarli, perché, a dispetto della sua fama di attaccabrighe, è una persona gentile e non vuole ergersi a giudice di nessuno in particolare. Tanto sono nomi notissimi, sostenuti dal battage editoriale internazionale, autori di libri che la gente corre a comprare in tutto il mondo. E che poi dimentica in modo indolore e spensierato.

Thomas Bernhard

Thomas Bernhard

E’ molto alta, Jamaica. Mi viene in mente una frase che ha scritto: «Ho pregato di non diventare più alta», sembra una frase qualunque, ma in un certo contesto diventa una frase piena di disperazione. Vedo che cammina incurvandosi e capisco ancora meglio quella disperazione. Ha lo sguardo malinconico e l’aria svagata col suo cappellino che non toglie mai, un bizzarro impermeabilino bianco che sembra il grembiule che si portava a scuola, e ai piedi calzini corti e vezzose pantofole di lana cotta. Se ne frega proprio Jamaica di essere glam, non solo nella scrittura, e ha perciò una straordinaria eleganza tutta sua. Tutto mi aspettavo, o temevo, ma non che mi sarei trovata di fronte a sorrisi dolcissimi e gentilezza. Perché la scrittura di Jamaica Kincaid è spietata, lucida, dura. Il suo carattere l’hanno spesso descritto come arrogante. «Ma sì, la critica americana non fa che darmi dell’arrogante, dell’arrabbiata. Io vorrei saper scrivere in modo un po’ più rassicurante, ma proprio non ci riesco. Non riesco a mentire quando scrivo. Ma se nemmeno gli scrittori si prendono la libertà di dire le cose come stanno, a che serve la letteratura, l’arte? Quando scrivevo sul New Yorker funzionava, posso dire che il New Yorker ha incoraggiato la mia arroganza. Ma poi arrivò alla direzione Tina Brown, che per le colonne di quel giornale leggendario affidò a un’attrice televisiva – non a una scrittrice o a una saggista – una rubrica sul femminismo; schiacciò la letteratura sotto il glamour, sotto il fascino irresistibile delle celebrities. E io me ne andai». Non ha mezze misure, dice quello che pensa e si comporta di conseguenza. «Ma la fama di arrogante mi viene soprattutto da un libro, Un posto piccolo. E’ un modo per delegittimare i tuoi argomenti dire che hai un cattivo carattere. Così tu riveli la verità su indigeni e turisti, su passato e presente dei Caraibi, e loro ti bollano come arrabbiata. I tuoi argomenti sono depotenziati e nessuno pensa più ai contenuti di questa tua supposta rabbia». La offendono i giudizi sommari, le valutazioni pilotate. «Siccome ho la pelle nera, da me vorrebbero che non facessi altro se non parlare di razzismo e di altre tematiche politiche, da una posizione riconoscibile e schierata naturalmente. Ma la mia ottica è un’altra, a me interessa la verità cui ti inchioda la letteratura».

Marguerite Duras

Marguerite Duras

Quando in Vedi adesso allora (See now then) la signora Sweet parla del marito musicista dicendo che «gli martellavano in testa note e note musicali, che si disponevano in ogni forma conosciuta ma mai in forme non ancora conosciute» esprime precisamente la sua idea di arte e letteratura: la ricerca di qualcosa che non era mai stato detto prima in quel modo. Lei, quasi unica oggi, lavora così. Come già Samuel Beckett, o Thomas Bernhard, o Marguerite Duras. «Oh, la Duras! La adoro» dice. «Ma sarebbe presuntuoso da parte mia situarmi nell’onda di questi grandissimi. Però è vero che gli scrittori salgono sempre sulle spalle di chi li ha preceduti, no? E, come a Beckett, Bernhard, Duras, Proust… a me la trama non interessa: questo è difficile farlo capire alla gente: naturalmente una trama c’è sempre, ma non è ciò che m’interessa di più. E fin dall’inizio sono stata quel tipo di scrittore, non perché imitassi volutamente qualcuno, ma perché mi veniva naturale scrivere così. Fin da un racconto che s’intitolava Bambina (compreso in In fondo al fiume) costituito da un’unica lunga frase, anche se non avevo ancora la padronanza di adesso o la fiducia o la comprensione dei miei meccanismi mentali. In quest’ultimo libro sono arrivata a cambiare punto di vista all’interno di una stessa frase: è un’evoluzione ulteriore del mio modo di scrivere che resta sempre fedele a se stesso però».

Samuel Beckett

Samuel Beckett

Con Duras ha in comune il mai risolto rapporto conflittuale con la madre, che da grande protagonista di uno dei suoi romanzi più abbaglianti, Autobiografia di mia madre, torna sempre in tutta l’opera di Kincaid, proprio come succede in Duras. Quelle madri che non hanno amato abbastanza le figlie, e anzi le hanno umiliate. Una madre che non capisce le ambizioni letterarie della sua bambina, ma che inconsapevolmente le dà la chiave per entrare in quel regno. «Mia madre leggeva molto, ma soltanto biografie: di Mozart, di Pasteur… A sette anni mi regalò un concisissimo Oxford Dictionary e io, che non avevo altro da leggere, lo lessi e rilessi tutto. Leggevo qualsiasi cosa, da piccola, anche gli ingredienti sulle scatole di cibo. E naturalmente la Bibbia. Ecco, in quel mio modo di ripetere le parole c’è probabilmente l’influenza della Bibbia. A scuola per punizione una volta mi costrinsero a ricopiare sul quaderno tutto il Paradiso perduto e fu così che m’innamorai di Milton».

Azzardo che nel suo riprendere frasi e parole c’è qualcosa del lavoro a maglia. E’ un andamento musicale o poetico forse, eppure a me resta la forte impressione di due ferri da calza che sotto l’abilità di dita esperte tengono saldi i fili della narrazione e li intrecciano, li accavallano, lasciano cadere una maglia, la riprendono e la rilavorano uguale o costringendola in nuove combinazioni. Lei è brava coi ferri, l’ho capito leggendo Vedi adesso allora pieno di riferimenti espliciti. Conferma, dice sì, è vero che sa lavorare bene a maglia e le piace questa idea di scrivere come si lavora a maglia, riprendendo i punti caduti, creando disegni imprevisti nella tessitura. E’ brava anche in cucina e in giardino. Ride evocando la giungla che è il suo giardino. Ha scritto tanto su fiori e giardini. «La mia vita» dice «è quella normale di una donna della mia età: lavoro in giardino, cucino, vedo gli amici, viaggio (è stata da poco con Candy a visitare la casa di Thomas Hardy nel Dorset), seguo la vita dei miei due figli ormai grandi: Harold di 30 e Annie di 26». Un terzo figlio inesistente, attribuitole da Wikipedia Italia, la fa molto ridere, così come la notizia che si sarebbe risposata.

Ancora Kincaid

Ancora Kincaid

«Ma per carità! Neanche morta! Sono esperienze che si fanno una volta sola, il matrimonio è un giuramento: non si può giurare in continuazione…» E poi non sembra un’esperienza esaltante, almeno a giudicare da Vedi adesso allora in cui la relazione coniugale appare piuttosto un inferno di non detto, bugie, odio sotterraneo e altre sgradevolezze, un libro quello che, se possibile, mette la parola fine a ogni sogno romantico di sintonia sentimentale profonda fra un uomo e una donna. Ride. Dice che anzi lei pensa che il matrimonio sia «lovely», che per lei è stata un’esperienza meravigliosa ed è anzi un’accanita sostenitrice del matrimonio perché ti costringe a uno stretto contatto col punto di vista di un’altra persona, e perché impari l’arte del compromesso. «Ma una volta nella vita è sufficiente!» Del resto «l’odio è una variante dell’amore» si legge nelle prime pagine di Vedi adesso allora e si può anche sostenere che il romanzo è l’esplorazione di questa variante in tutte le sue manifestazioni più catastrofiche e terrorizzanti, un riandare indietro nel tempo per rileggere ogni dettaglio diversamente, in una forma capovolta dell’amore, alla ricerca dell’abisso che c’era, inavvertito, in uno sguardo, ma trasformando così il passato in contemporaneità o andando ancora più indietro, all’infanzia, chiave di tutto un destino. «Esisteva solo lei bambina, e adesso entrava nel tempio, nel cuore sacro della sua vita: Vedi, Adesso, Allora, e avanti così, con quelle visitazioni, un viaggio santo nel passato, intorno e intorno alla stanza in cui stava seduta a ripercorrere la vita che era stata, che era, e che sarebbe stata, perché era tutto uguale, proprio come era sempre stata e come sarebbe stata sempre».

La offende che in America si dica che ha scritto questo libro per vendicarsi di un marito fedifrago che ha finito con l’abbandonarla per risposarsi e avere altri figli. «E’ un libro sul tempo» taglia corto. E come la mettiamo con l’autobiografia? Ogni suo libro sembra raccontare la sua vita con grande fedeltà, e con una furia che trafigge chi ritiene di riconoscersi nelle sue pagine. «L’autobiografia? Ma certo, con che altro possono costruire i racconti gli scrittori se non con se stessi, con i propri sentimenti, la propria storia, i loro sogni a occhi aperti…. Ma è un legame complicato quello fra opera e biografia, uno scrittore è anche il primo lettore di se stesso, il primo interprete, che distanza fra vita, scrittura e interpretazione!» Sono così pochi i fatti che Kincaid racconta, fatti suoi che però appartengono a tutti, perché tutti amano e tutti odiano, tutti hanno avuto una madre e l’hanno amata o l’hanno odiata, il problema è avere il coraggio, che lei ha in misura gigantesca, di andare fino in fondo, con le parole, di quell’amore e di quell’odio.

Italo Calvino

Italo Calvino

Le dico che, comunque, la sua appare come una storia di riscatto: la bambina tradita e malamata, la studentessa castrata che faticosamente, mentre lavora come ragazza alla pari, s’iscrive all’università, ma ne viene allontanata perché non ce la fa a tenere i ritmi, oggi è una scrittrice cara ai lettori selettivi di mezzo mondo – non sono legioni ma grazie a Dio ancora esistono – e insegna Letteratura all’università e vive in due posti bellissimi, il Vermont e la California. «Sì, ho avuto un colpo di fortuna nella vita: che mi fosse presentato un uomo eccezionale come William Shawn, quando il New Yorker era il New Yorker. Amò semplicemente quello che scrivevo e fece di me una star della rivista. Il resto è venuto di conseguenza». Le piace insegnare e racconta volentieri come imposta i suoi corsi. Quest’anno le lezioni vertono su Melville e Joyce. Contemporanei ne legge pochi, solo quando il suo lavoro la obbliga a farlo. Ma a un certo punto, come se finalmente le tornasse in mente un nome che le stava sulla punta della lingua senza riuscire a ricordarlo, mi prende per un braccio e mi dice: «C’è il libro di un autore italiano che ho molto amato, molto: Palomar, di Italo Calvino, l’ha letto?»

 

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