ANTEPRIMA. Qualche brano dal mio prossimo libro (fine giugno 2010)

ANTEPRIMA. Qualche brano dal mio prossimo libro (fine giugno 2010)

E IN MEZZO IL FIUME. A piedi nei due centri di Roma (Laterza, collana Contromano)

Una gita in barca
Trastevere è l’unico quartiere di Roma che ha un rapporto stretto col fiume. Lo si capisce solo vivendoci; perfino quando abitavo sull’altra sponda, quella di Campo de’ Fiori, il fiume non esisteva per me come non esiste per i romani in genere. E’ lontano, ininfluente, dimenticato. Ora lo so, ora che vivo nel quartiere, il fiume appartiene a Trastevere, tutt’uno con esso, tutt’uno con un’idea antica della città. E’ necessario innamorarsi profondamente di Roma per ricordarsi del Tevere, per riconoscerlo come il sangue nelle sue vene. Bisogna sapere di quando la città degradava verso l’acqua e si nutriva dei suoi pesci e il fiume non era stato ancora relegato nel fondo del canyon costituito dai muraglioni, ma erano tempi in cui esplodeva facilmente invadendo le case, distruggendo animali, oggetti, persone.
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Una volta nel Tevere c’erano storioni, cefali, spigole, non solo ciriole, che sono giovani anguille, dette anche fiumarole o chiavicarole. E c’è un verbo bellissimo del dialetto romanesco che oggi non si usa più, “ciriolare”. Vuol dire procedere sinuosi come un’anguilla, destreggiarsi nella vita, cavarsela insomma. Mentre la ciriola, ormai, è per tutti uno sfilatino, un panino tipicamente romano, che ha la forma di un pesce dalla grande pancia.
«A ben guardare è un’enorme ciriola il Tevere stesso, con le sue anse pronunciate» disse Adriana quel giorno sul barcone. E’ vero, mica come il Tamigi che viene giù dritto sparato, o la Senna, maestosa e pomposa, per non parlare del Reno e del Danubio, fiumi larghi e solenni. «Il Tevere è sinuoso, femminile, tutto mammelloni che si insinuano nella città ad allattarla».
Così vuole la leggenda dei due fratelli, Romolo e Remo, allattati dalla Lupa, e la Lupa era Roma e Rumon era il suo nume, Rumon che era il Tevere prima di chiamarsi Tiber. Così parla la storia dei nomi se si risale indietro la loro corrente. «Ruma, la città del fiume» la chiamavano gli etruschi, poi la u si è chiusa graficamente in una o lunga, che si pronuncia stretta – così fanno le u nel corso del tempo. Ruma significava mammella.
«Guarda il mammellone di fronte all’Isola Tiberina, per esempio» indicava Adriana mostrandomi un punto sulla mappa appesa dentro al battello. Col dito andava ridisegnando la forma tondeggiante dell’ansa, la curva a S del tratto di fiume che stavamo percorrendo. Proprio lì c’erano stati i primissimi insediamenti. E noi ci stavamo arrivando.
«Rumina (Romina) era la dea dei poppanti» dissi, reminiscenza scolastica. La barca intanto arrivò all’ultima stazione, la Calata dell’Anguillara, davanti all’Isola Tiberina, quindi girò su se stessa per tornare indietro. Si ripartiva.
«E’ diverso vedere Roma dal fiume, ti cambia tutta la prospettiva, sembra un’altra città».
Il più imponente è il ponte di Castel Sant’Angelo, con i suoi angeli ad ali spiegate. Ce lo indicavamo l’un l’altra senza l’ombra d’un dubbio. E’ inconfondibile, anche visto dal basso.
«Ai romani non capita mai di vedere la città dal basso, non hanno un rapporto familiare con il fiume. Non più», l’ho detto io? Non importa. E’ così. I romani vanno su e giù per i lungotevere, ma non scendono quasi mai le ripide scale che portano agli argini. Vanno in macchina in un traffico infernale, non passeggiano sui lungofiume con quella calma consuetudine che fa venire voglia di scendere verso l’acqua. Così ignorano il fiume, lo temono, lo lasciano a vagabondi, drogati, clochard. Se vanno nei ristoranti sulle chiatte galleggianti, il fiume nemmeno lo guardano, il fiume che era la vita di Roma.
L’avrei capito in seguito. Solo i trasteverini lo considerano ancora cosa loro, i trasteverini costretti a passare i ponti «per andare in città», i trasteverini che l’odore salmastro lo sentono nell’aria fino in casa, così come sentono e vedono i gabbiani, che riempiono i vicoli silenziosi di richiami. Trastevere è il cuore di Roma, perché è la parte antica che non cede, che resta stretta all’anima dell’agglomerato originario, popolano, superstizioso, paesano, bigotto. Fiumarolo. Aveva capito tutto di Roma Laura Betti, la grande amica di Pier Paolo Pasolini, che abitava in via Montoro, dietro Campo de’ Fiori: «E’ una città di campagna, dove puoi uscire di casa zoccolando» diceva. A Roma si zoccola e si ciriola. E se non lo sai fare, o – peggio – te ne vergogni, non potrai dirti romano.
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Il regno del barocco
Nella libreria antiquaria Cesaretti, di via del Collegio Romano, dove sono andata alla ricerca dell’introvabile Guida di Roma dell’americana Georgina Masson, quella utilizzata da Elsa Morante per vedersi un quartiere a settimana, quando pensava ossessivamente di essere sul punto di diventare cieca, incontro un’amica persa di vista da qualche anno, Daria Galateria, una francesista che abita nei paraggi. L’avevo lasciata in via della Vite e la ritrovo che si è trasferita in via del Gesù.
«Sono due Rome diverse» mi racconta mentre ci sediamo per mangiare qualcosa all’Enoteca Corsi, una vecchia trattoria, sotto casa sua, che esiste simile a se stessa dal 1940. «Intorno a piazza di Spagna, dove stavo prima, lo charme è perduto, è diventato centro commerciale, tutto una vetrina dove prevale la moda. E nemmeno alta, non solo almeno. Non che anche qui intorno, nel rione Pigna, non si pratichino i soliti commerci, ma conservano una fisionomia tradizionalmente romana. Prendi questa osteria, per esempio. I proprietari vengono da Leonessa. Danno del tu a tutti, il tu ciociaro. Aprono ristoranti ovunque nel mondo, persino in Australia, ma restano se stessi. Quasi un miracolo».
E la cucina è quella classica, piatti molto conditi, saporitissimi. Niente di dietetico, non sia mai, ma comunque semplice, casareccio.
«E’ diventato il quartiere dei politici ormai, questo qui» continua Daria che a dispetto della sua linea minutissima mangia tutto quello che le va. «C’è il Parlamento qua dietro e i politici si allargano, li incontri dappertutto. Eppure per me resta l’insula domenicana che era nel Seicento, un paesaggio urbano barocco, meraviglioso».
Mi prende sottobraccio e mi racconta la Roma che ama. In via Santo Stefano del Cacco mi dice ridendo che si era imbattuta per la prima volta in questa strada leggendo il Pasticciaccio. «Io credevo cha Gadda se lo fosse inventato quel nome, che fosse una delle sue bizzarrie insomma, e invece, pensa, “cacco” viene da “macaco, macacco”: avevano scambiato la statua egizia di Anubis dalla testa di cane, rinvenuta durante gli scavi e ora ai Musei Vaticani, per una scimmietta». Ridiamo insieme di quel povero santo per sempre legato a una parola ridicola. Davanti al piede gigantesco di via del Piè di Marmo, che sembra infilato in un’enorme pantofola, ridiamo di nuovo: «Era un piede femminile, malgrado le dimensioni». Piede di Iside probabilmente, sopravvissuto anche questo al tempio egizio crollato, su cui poi fu edificata la chiesa di Santo Stefano.
«E anche tutto questo riciclo di spazi, templi che diventano chiese, chiese che diventano palazzi, è divertente. Sdrammatizza la seriosità della religione, ti pare?»
Quando approdiamo nella settecentesca piazza Sant’Ignazio le dico che anche io, non particolarmente appassionata di barocco, provo sempre una gioia profonda ad attraversare questa piazzetta che sembra una scena teatrale, tanto che modifico i miei itinerari a piedi pur di includerla e poterla rivedere ogni volta.
«Forse è la piazza più bella di Roma» dico. Lei mi racconta che i tre palazzetti rococò sono chiamati burrò, e infatti c’è via dei Burrò.
«Sai perché?»
«Non ne ho la minima idea. Un nome di famiglia?»
«Da bureaux, uffici. Era la via degli uffici via dei Burrò. Erano chiamati burrò i tavoli da studio…»
Ora c’infiliamo dentro la chiesa di Sant’Ignazio e anche qui Daria ha una storia da raccontarmi. Lo fa quando siamo nel punto migliore per osservare l’interno disegnato di una cupola che non c’è, è solo un trompe-l’oeil, uno dei più spettacolari inganni barocchi, geniale soluzione gesuita di un incidente diplomatico.
«Perché vedi» mi dice «la cupola della chiesa dei gesuiti sarebbe andata a oscurare la domenicana Biblioteca Casanatense sulla via Sant’Ignazio! I domenicani giustamente si opposero, e così i gesuiti escogitarono questa soluzione spiritosa: invece di costruire una cupola ingombrante, ne crearono una immaginaria. Che bell’esempio di civiltà per risolvere un dissidio che era tutto politico!»
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Ecce San Saba, quasi Testaccio
Con Nanni Moretti ho appuntamento davanti al suo cinema, il Nuovo Sacher, che si trova ai margini di Trastevere a Porta Portese. Monto sulla sua macchina perché andiamo a mangiare – è l’una passata – in una tavola calda sotto gli uffici della casa di produzione a Testaccio.
«Non è Testaccio» precisa lui «è San Saba».
I confini sono netti, effettivamente: da una parte di via Marmorata, quella della Piramide, si stende Testaccio, dall’altra l’Aventino. La Sacher Film è un po’ più su, in via Annia Faustina, già nel rione Piccolo Aventino, o San Saba che dir si voglia, e più tardi, quando saremo negli uffici, Nanni mi mostrerà dalla finestra una splendida inquadratura della chiesa di San Saba, che domina dall’alto il colle con le inconfondibili colonnine bianche mentre una palma rigogliosa sembra farle vento di lato.
«Vedi che siamo a San Saba?» dice con un sorrisetto paziente.
Gli spiego che non vado così per il sottile, io ne faccio una questione di sponde del fiume, ancora una volta riva destra, riva sinistra e loro derive, ma verso l’entroterra.
«Allora…» si arrende allargando le braccia e sollevando una gonfia borsa impiegatizia che si trascina dietro.
Prima di salire in macchina aveva telefonato alla tavola calda, la sua preferita, informandosi sul menu e trattando con il gestore. Mi pare che si era accordato per le lasagne. Nanni ascoltava deliziato al cellulare la descrizione delle pietanze come si trattasse di piatti eccezionali, non so se per soddisfare una fame infantile scoppiata nel sentire descrivere i cibi o per far piacere alle persone con cui stava parlando, che infatti erano più d’una: al telefono si succedevano altri componenti della famiglia di ristoratori verso i quali prima o poi ci saremmo diretti. E mentre la telefonata andava per le lunghe, io mi godevo una tipica scena da film morettino, perché Nanni, con il mento spinto verso il cielo – che sembrava ancora più alto – chiedeva gli ingredienti uno a uno e voleva sapere se si trattava dello stesso piatto che aveva gustato qualche giorno prima o se erano state apportate delle varianti.
Poi in auto, mentre attraversavamo ponte Sublicio, mi aveva spiegato che quella non è una tavola calda uguale alle altre, fa una cucina casalinga mica pasticciata e grassa come ti servono tutte le tavole calde, e «poi i proprietari sono simpatici».
Guidava e parlava con la voce ad alto volume eppure afona, un poco velata, col tipico strascico degli anni sessantottini che non ha mai dismesso ed è talmente parte di lui da essere a questo punto semplicemente un modo di parlare morettiano, assertivo e belligerante. E pensavo che di Nanni Moretti mi piace il suo essere rimasto sempre uguale. Era così, ma proprio vestito e atteggiato così, quando l’ho conosciuto ai tempi di Ecce Bombo ed è rimasto così, prodigiosamente intatto.
«Sai, io i posti, i ristoranti, i bar, i negozi li scelgo non per come si mangia o perché sono rinomati, no: mi devo sentire a mio agio. Per me conta la familiarità, il calore, la situazione del suono, dei rumori. Quando trovo quello che mi piace, mi entusiasmo e vado soltanto lì. Tendo a frequentare sempre gli stessi posti, anche con i cinema lo stesso».
La tavola calda dove mi porta, a me sembra frastornante e incasinata come tutti i posti del suo genere, e poi è l’ora di punta, per fortuna che ci hanno tenuto un tavolo. I componenti della famiglia con cui ha parlato al telefono vengono a coccolarlo, e Nanni esagera le lodi delle lasagne, un piatto che a me pare normalissimo, ma contagiata dalla sua sicurezza sono pronta a sostenere che fu davvero speciale.
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I cocci del Villaggio Globale
Testaccio era una collinetta e un grande prato, una distesa di vigneti, un porto commerciale e una cava di marmo. Nel 1845 il primo omnibus a cavalli, inaugurato a Roma, partiva da piazza Venezia, attraversava via Marmorata e proseguiva fino alla basilica di San Paolo sulla via Ostiense. La pianura andava dalla Piramide Cestia fino al Tevere, da piazza dell’Emporio al Monte Testaccio. I romani venivano a farci scampagnate e a prendere il fresco, a scatenarsi in feste carnevalesche e a bere vino. E siccome nella forma il Mons Testaceus ricordava il Calvario, già nel 1200 era teatro di sacre rappresentazioni che riproducevano la crocefissione. Il nome deriva da testae, che vuol dire cocci, perché il cosiddetto monte è fatto di pezzi di vasi rotti sulla cui origine si raccontano storie diverse. Forse erano i frammenti di anfore mal riuscite, scarti delle vicine botteghe di vasai. Oppure, la versione più accreditata, sono i resti delle terracotte che contenevano i tributi dei sudditi da versare all’erario romano. Arrivavano in nave al porto Testaccio, dove venivano scaricati anche i ricchi materiali depredati alle terre conquistate, e subito si provvedeva alla dislocazione. Le anfore, svuotate e distrutte, anziché finire nel fiume dove avrebbero provocato intasamenti, venivano accatastate tutte insieme e mescolate a terriccio, perché non franassero. Nei secoli la discarica si consolidò in un montarozzo di cui ora, insieme a Nicola, percorro a piedi il perimetro lungo il ferro di cavallo costituito dalla via di Monte Testaccio, la più caratteristica del quartiere e la più modaiola. Ci sono i locali storici dove si suona il jazz, Caffè Latino e Radio Londra; le discoteche, Alibi, Big Bang, Coyote… e c’è la Scuola popolare di Musica, che mi riporta indietro agli anni ‘70: è nata nel 1975, uno dei migliori frutti – e duraturi – del ‘68 creativo.
Non so più in quale di questi locali, forse il Caffè Latino, Nicola mi invita a entrare perché io constati con i miei occhi che la parete bitorzoluta è costellata di cocci, i cocci delle vecchie anfore buttate via. Accarezzo con una certa apprensione la parete, è come se toccassi la pelle nascosta di Roma. Il Mons Testaceus, a cui tutti questi luoghi di ritrovo si sono attaccati come escrescenze, è un centro di irradiazione da cui sgorga la linfa invisibile della città, una corrente elettrica che attraversa velocissima la storia, trasmettendone l’umile, pagana sacralità.
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Quando c’era l’underground
Elio Pecora una sera mi porta con sé con aria di mistero. Lo seguo nei vicoli fino alla chiesa di Santa Maria. Mi annuncia: «Preparati. Vedrai che atmosfera!»
Tutte le sere, alle sette e mezza, la comunità di Sant’Egidio si raccoglie a cantare. Arrivano in tanti, si salutano, prendono il messale sulla panca all’ingresso e si sistemano nei banchi. E’ una preghiera aperta a tutti.
«Trovo straordinario che la gente, prima di ritirarsi a casa, passi di qui a compiere questo rito collettivo» sussurra Elio nell’ondeggiante luce delle candele. «E’ un modo poetico di vivere, che ti fa stare meglio al mondo. Una meditazione che non esclude nessuno».
Anche questo è Trastevere downtown, se “downtown” è il cuore antico di una città, là dove ritrovi le sue radici, lo spirito degli antenati. Ed è “village”, un a parte anticonformista rispetto all’andazzo generale: il mondo corre, qui ci si ferma, il mondo è ateo, qui umilmente ci si inginocchia, il mondo è intollerante, qui si aiuta il prossimo.
«Qualcuno sostiene che Trastevere è pieno di poveri, perché ci siamo noi di Sant’Egidio» mi dice don Matteo. «Ma i poveri ci stanno perché ci stanno. Punto. C’è un bisogno? Cerco di dare una risposta, trovare una soluzione. A questo dovrebbe servire il pensiero politico. Ma le risposte politiche non arrivano e la beneficenza non basta. I poveri hanno individualità difficili, difficoltà psichiche spesso, devi non solo soccorrerli, ma curarli. Aiutarli a inserirsi in circoli virtuosi, dare senso, motivazioni. Manca l’essenziale: un centro diurno, per esempio, dove chi vive per strada possa lasciare le sue cose senza paura di essere derubato del poco che possiede».
Mi risuona una frase di Roberto Di Feliceantonio: «Ogni giorno, se raccolgo li sordi dell’elemosina, magno e se no, no. Poi dicono che la fame a Roma nun ce sta. Ce sta eccome, te core appresso col Ferrari».
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Una stella nell’Orto
Il mio bisogno di simmetria, mi fa ridiscendere in basso. Trastevere, quando piove, si trasforma in palude. Le irregolarità dei sanpietrini formano pozzanghere che in certi casi sono piccoli stagni dove i piccioni fanno il bagno e i gargarismi. Si cammina sbilanciati dagli ombrelli e attenti a dove si mettono i piedi. In queste condizioni sono andata all’Orto Botanico per non perdermi lo spettacolo della sua magnificenza umida e zuppa. In genere lo vedo asciutto e pieno di mamme con i bambini in carrozzina, una specie particolare di asilo nido. Pago i quattro euro all’entrata e mi addentro. Non piove a dirotto, anzi in realtà spiove e già spunta un raggio di sole dietro le nuvole. Sono sola fra piante dall’aspetto felice, l’aspetto che hanno sempre le piante ubriache d’acqua, fragranti di odori esplosi tutti insieme.
Ecco un altro dono del quartiere in riva al fiume che i romani trascurano e ignorano, questa giungla vera dentro la giungla di pietra, questo a parte strappato alla baraonda, questo silenzio rotto da una musica di trilli. Cince, fringuelli, cardellini, passeri, picchi, rampichini ringraziano la pioggia di essere caduta e di essere passata, invitano il sole ad asciugarli adagio. Procedo senza fretta, sarebbe un controsenso averne in un luogo che appartiene più all’universalità che alla contingenza, sosto a contemplare l’enorme radice contorta di un albero caduto. Tutto ha forma gigante, anche le canne di bambù di diversi spessori e le palme, tante palme alte e scapigliate.
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Arrivederci Roma
Quando ero piccola, per il mio compleanno, mio padre mi portava a fare un giro in carrozzella. Era per me l’avvenimento più emozionante della giornata, atteso con l’ansia dei bambini che non amano le sorprese, ma la ripetizione della sorpresa. Roma nei primissimi anni ‘60, a piazza Venezia, dove le carrozzelle sostavano in massa, aveva ancora l’odore di stalla, un odore di campagna. I cavalli sbuffavano, zoccolavano, scuotevano la criniera e aspettavano i clienti col tondo occhio vigile per poi “far ciriola” con loro. La scelta era complicata: questa no perché ha la capottina un po’ scrostata, quell’altra forse… ma il cavallo sembra nervoso. Ecco, questa! Non era come oggi col taxi, che sei obbligato a rispettare la fila. La carrozzella si poteva scegliere. Mi ci accomodavo come dentro una conchiglia e si partiva, le ruote scricchiolavano sulla strada, la brezza del movimento mitigava l’afa di luglio.
Mi piaceva ogni volta imboccare ponte Sant’Angelo diretti al castello, entrare nella sfarzosa scenografia berniniana con la doppia parata di angeli, dieci in tutto, aspettandomi di vederli incrociare le spade sulle nostre teste al nostro passaggio. Veramente la spada la possiede solo quello che negli anni è diventato il mio preferito, ma non è di marmo bianco, è di bronzo verdastro, e non è sul ponte. Non è nemmeno un angelo; è l’arcangelo Michele, che svetta sul tetto del castello e la spada la sta rinfoderando per annunciare la fine di un’antica pestilenza. La visione migliore si ha arrivando da via delle Fosse, in macchina, fermi al semaforo, possibilmente appena dopo il crepuscolo. L’angelo sembra sfiorare con i piedi le cime dei pini altissimi e il movimento danzante delle ali, delle vesti, del gesto, suggerisce un’impennata, l’improvviso possibile balzo per prendere il volo dentro l’azzurro che si sta facendo nero. E’ bellissimo.

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