Gente vista di spalle (Il Foglio, 24 ottobre 2020)

Gente vista di spalle (Il Foglio, 24 ottobre 2020)

Un’inquadratura di The Rope di A. Hitchcock

Quando Alfred Hitchcock, in un film del 1948, Rope (Nodo alla gola), fa andare su e giù i personaggi in campo lungo da una stanza all’altra nell’infilata delle porte spalancate di un appartamento newyorkese, vuole mettere in atto, per sua stessa dichiarazione, «l’idea un po’ folle di girare un film costituito da un’unica inquadratura». Lo disse a François Truffaut in un’intervista raccolta in Il cinema secondo Hitchcock, pubblicato in Italia dal Saggiatore. In realtà i piani sequenza sono dieci, ma per la maggior parte danno l’impressione di un’unica ripresa. E questo proprio grazie all’andirivieni degli attori, visti da dietro quando escono dal salotto dove si svolge un party, per dirigersi nell’ingresso o nella successiva sala da pranzo in un tempestoso complicarsi di percezioni e sentimenti. Ecco come un espediente tecnico si mette al servizio di un effetto psicologico. Ed ecco come, per quello stesso effetto psicologico di inquietudine, sospensione, paura, sono decisive le inquadrature di spalle, tutto un ondeggiare di attori in un’andatura fintamente sicura di sé (nel caso dei due giovani protagonisti colpevoli di omicidio e occultamento di cadavere) o innocentemente indaffarata (quando si tratta dell’anziana cameriera ignara di tutto). In certi momenti la schiena di un personaggio finisce con l’occupare per pochi istanti l’intero schermo con effetto di buio totale: il buio della mente capace di concepire misfatti e il buio del mistero in cui sono avvolti gli invitati al party, inconsapevoli di quanto è accaduto in quel medesimo salotto pochi minuti prima del loro arrivo.

In Viceversa. Il mondo visto di spalle di Eleonora Marangoni, ricco di immagini (Johan&Levi), questo esempio non c’è, ma Hitchcock è presente sotto varie forme, compresa quella di una foto del 1963 di François Gragnon che lo ritrae al festival di Cannes rigorosamente di schiena con i piedi in mare, vestito come sempre del suo completo scuro ma col fondo dei pantaloni immerso nell’acqua e le braccia spalancate ad abbracciare l’infinito, «inguaribile e spensierato ragazzone» chiosa l’autrice. E infatti la posa del regista fa pensare a uno dei suoi tanti sberleffi: quando entra all’interno di una sua silhouette che lo ritrae di profilo all’inizio di una famosa serie televisiva o quando fa rapide apparizioni come una comparsa qualsiasi nei propri film. Perché il nome stesso di Hitch è ormai sinonimo di enigma, e questi scherzi “grafici” non fanno che evocare e ribadire l’enigma, mescolato certamente a un elemento di crudeltà. Dare le spalle contiene insieme i due elementi, e non solo nel caso del celebre regista. Una persona di spalle è misteriosa persino se la conosciamo bene, perché ci riserva un trattamento di esclusione, ha il potere di nasconderci qualcosa. Magari, precedendoci mentre camminiamo, sta sorridendo a qualcun altro oppure ne approfitta per inviare contro di noi una smorfia di disprezzo che non possiamo vedere. Non lo sapremo mai. Scrive Marangoni: «Le figure di schiena esercitano questo potere e, in un certo senso, questa crudeltà… se stiamo guardando qualcuno in faccia difficilmente ci chiederemo come apparirà di spalle, mentre nel caso opposto viene naturale domandarsi come sarà il volto, quale l’aspetto frontale dell’altro lato di una treccia o di un cappotto scuro che avanza davanti a noi».

Enigmatica, crudele e, grazie al suo mistero, inevitabilmente  affascinante. Abbiamo dunque bisogno di sottrazione per farci irretire, dobbiamo sentirci in pericolo, sia pure leggermente, temporaneamente. Almeno fino a quando la persona di spalle non si gira e si stabilisce il contatto mancato. Contatto dello sguardo. Sono dunque gli occhi decisivi. Quando Baudelaire incrocia nella strada affollata di Parigi una passante «maestosa», la sconosciuta lo innamora immediatamente per la dolcezza del suo sguardo, eppure è il fatto che gli sfugga a torturarlo, non può inseguirla, e lei è andata via per sempre, per sempre perduta: «Io non so dove fuggi, tu ignori dove io vada / O te che avrei amato, o te che lo sapevi!» Si sono dati le spalle per l’«eternità».

Un altro poeta, Rilke, s’interroga nelle Elegie Duinesi: «Chi ci ha dunque così rigirati  / che, qualsiasi cosa facciamo, / è sempre come fossimo in partenza?» Lo sguardo degli esseri umani è infatti tragicamente rivolto al passato, sempre sul punto di separarsi da qualcosa, da qualcuno: «così viviamo per dir sempre addio».

Eleonora Marangoni

In campo artistico l’Occidente il fascino delle figure di spalle l’ha scoperto tardivamente, solo nel Trecento. A guardare più indietro, Eleonora Marangoni scova soltanto l’affresco, conservato al Museo Archeologico di Napoli, che raffigura una donna vista da dietro mentre è intenta a camminare cogliendo fiori. E’ detta la Flora di Stabia perché proviene da un’antica villa privata di Castellamare di Stabia. Risale alla prima metà del primo secolo. E questo è tutto. Dopo bisogna aspettare Giotto e la sua Ultima cena nella Cappella degli Scrovegni di Padova per vedere gli apostoli e il Cristo seduti intorno alla tavola, chi in posizione frontale, chi di profilo, chi di schiena. E’ di un secolo dopo la celebre Crocefissione del Masaccio in cui ai piedi della croce compare una Maddalena di grande tragicità proprio per la posizione prosternata in ginocchio con i lunghi capelli biondi sparsi lungo la schiena contro il rosso sangue della tunica e le braccia spalancate in alto mentre gli occhi s’intuiscono piangenti e rivolti in basso. E uso il verbo intuire, perché sempre la visione posteriore lascia campo aperto all’immaginazione. Forse invece gli occhi sono asciutti, chiusi e non aperti, avendo già versato ogni lacrima. Quel che è indubitabile, però, è il senso del dramma potenziato dal silenzioso grido della Maddalena dal volto nascosto, mentre le altre due figure in piedi, una di profilo, l’altra frontale, la Madonna e san Giovanni, mostrano composti il proprio dolore.

Viandante nel mare di nebbia, di C.D. Friedrich

Sono moltissime le immagini, prese dalla pittura come dal cinema e dalla fotografia, dalla letteratura e persino dal fumetto, che compaiono e vengono descritte in Viceversa. E ognuno potrà aggiungere le sue, perché nei nostri tempi confusi, egocentrici e digitali lo sguardo di spalle si è moltiplicato, uno sguardo disimpegnato e voyeuristico, autoriferito ed egoista, che si mantiene libero e a distanza dal confronto diretto con l’altro. «Nel voyeurismo si è due volte soli» si legge nel libro a proposito del quadro di Hopper New York Interior del 1921 «è solo chi guarda ed è solo anche chi è osservato». E’ il ritratto, di spalle, di una ballerinetta che cuce nella solitudine della sua stanza. Ma probabilmente l’immagine emblema della “visione da dietro” è il Viandante nel mare di nebbia di C.D. Friedrich, “rückenfigur”, figura girata per eccellenza. E qui si torna indietro al primo Ottocento con una carica di malinconico romanticismo che lascia comunque intatta la perplessità sull’interpretazione del quadro: a cosa pensa il viandante appoggiato al bastone e con gli occhi probabilmente persi nel grigio paesaggio di picchi lontani e cime di alberi che spuntano dall’ovatta nebbiosa? A un amore infelice? Al destino indecifrabile? Alla grandezza dell’universo, alla forza della natura? E se fosse cieco? L’atteggiamento pensoso è potenziato dal fatto che ci dà le spalle e che quindi per noi la sua espressione è inattingibile.

Non è il viso, sono altre parti del corpo a “parlarci” nelle figure voltate: l’inclinazione di una testa, la nudità di una nuca, la postura delle gambe chiuse o divaricate, i gomiti spinti indietro dalle mani infilate nelle tasche, i piedi dall’andatura veloce o di danza, ma tutto questo garantisce assai poco, anzi aggrava il margine dell’equivoco senza dissolvere l’ambiguità.

La foto di Daniel Reinhardt davanti a «La riproduzione vietata » di Magritte

Ma c’è un’altra immagine emblematica, più complessa e labirintica del Viandante, e infatti è più moderna, successiva di un secolo. E’ La riproduzione vietata (1937) di Magritte che contempla un uomo di spalle davanti allo specchio, vestito di scuro. A essere inquietante è il fatto che la figura riflessa non si mostra di faccia, ma anch’essa di schiena, perfetto doppio dell’originale, mentre il libro appoggiato sulla mensola, la mensola che sostiene lo specchio, si riflette regolarmente. E di che libro si tratta? Tanto per restare in tema, anzi come a firmare l’opera magrittiana, è uno dei romanzi più angoscianti della storia letteraria, il Gordon Pym di Edgar Allan Poe, che parla di derive e straniamento oltre l’umano. E infatti quel che voleva comunicare Magritte in puro stile surrealista è «una riflessione … su quel “mistero del mondo” che il pittore ha ribadito più di una volta di voler evocare attraverso le sue opere» ci dice Marangoni. A voler complicare ulteriormente le cose, ho scovato una fotografia di Daniel Reinhardt che triplica il segno perturbante de La riproduzione vietata perché riprende un visitatore al museo, vestito di scuro, che guarda il celebre quadro, nell’identica postura ritratta: solo la nuca è meno tondeggiante di quelle sulla tela, ma non fa una grande differenza. Quel che conta è l’effetto eco dell’intera scena.

A proposito di nuche. E’ loro riservato in Viceversa un discorso nel discorso che corre lungo i sei capitoli del volume. Nuche maschili e nuche femminili, dai capelli in disordine o pettinati, e come si muovono, e come s’intrecciano, le tante sfumature di colore, l’essere liberi o imprigionati in un nodo, in un bavero, in un colletto. Chiome che nascondono o lasciano vedere il collo e le spalle in diverse forme di eros, che Pasolini in Petrolio esprime così: «Chi ha le onde fitte fitte e nere che gli stanno attaccate al cranio come a quello di una statua, scoprendogli dietro una bella nuca di soldato: chi ha invece i capelli abbandonati, lisci e biondi, che come si muovono gli cascano da tutte le parti, ma sempre con eleganza e leggerezza, scivolando come fossero di seta (e sempre ben tosati dietro le orecchie, sulla nuca scoperta, dove splende la virilità»).

Ma parlando di nuche, osservatori, osservati e capovolgimenti vari, come trascurare la centralità di Vermeer, quando con Lo studio dell’artista (e siamo ancora a metà del Seicento) dà il via a tante future innumerevoli tele in cui il pittore sarà, appunto, visto di spalle (da se stesso nel farsi del quadro e dai futuri spettatori), mentre lavora seduto al cavalletto? Una mise en abîme che conoscerà la moda fotografica, cui accennavo prima, diventata ormai persino stucchevole, di riprendere di spalle i visitatori nei musei mentre osservano le opere esposte. Per esempio il fotografo tedesco Thomas Struth, il cui scopo dichiarato è di «mettere sullo stesso piano il tempo dell’opera e quello dello spettatore», fa in realtà molto di più.

Las meninas

Almeno quando al Museo del Prado fotografa Las meninas di Velazquez, guardate da una folla di presenti. Perché che cosa rappresenta in verità la celeberrima tela se non una delle più vertiginose incarnazioni del “gioco del rovescio”? Non a caso viene citata da Antonio Tabucchi nel racconto che porta questo titolo. Chi è di faccia e chi di spalle in questa pittura? «La chiave del quadro sta nella figura di fondo» scrive Tabucchi «è un gioco del rovescio». A Tabucchi interessa in particolare la figura di fondo perché si trova sul limitare fra mondo terreno e ultraterreno, fra realtà e illusione, vita e morte. E così per Velazquez, probabilmente, che costruisce la scena di un pittore (se stesso) intento a fare il ritratto a due illustri monarchi: Filippo IV e sua moglie  Marianna. Ma i reali di Spagna si vedono solo attraverso uno specchio sullo sfondo che li riflette e, dunque, dobbiamo accontentarci di immaginarli fuori dal quadro e di spalle. Eppure quasi tutti i personaggi presenti sulla tela li guardano. Dunque loro due, gli assenti, sono il fulcro di un quadro che pretende invece di mettere al centro las meninas, “le ragazze”, cioè l’infanta Margherita e le sue damigelle. Senza contare il personaggio misterioso che aveva colpito Tabucchi e che guarda tutti da dietro, dalla porta di fondo aperta e luminosa, dove forse verranno risucchiate tutte le figure e la scena e il suo senso, e il luogo dove passano queste esistenze. «In apparenza questo luogo è semplice» scrisse Foucault nel primo capitolo di Le parole e le cose «è di pura reciprocità: guardiamo un quadro da cui un pittore a sua volta ci contempla». Ma niente è semplice in questa pittura che ha suscitato tante interpretazioni (e quella di Foucault è forse la più profonda). Vi è dentro un discorso sul vero e sul falso. Il vero quadro, per esempio qual è? Quello che adesso è appeso al Prado o quello che vediamo di spalle che Velazquez sta eseguendo dentro la tela? Qual è il diritto e il rovescio delle cose? Di cosa parliamo quando ci raccontiamo, e quanto resta inevitabilmente rimosso o nascosto di quanto vogliamo rivelare di noi stessi agli altri? Il mondo è rappresentazione, e chissà che alla fine la visione di spalle non sia la più sincera, quella cioè che dichiara più apertamente l’inganno, e non ha bisogno di ulteriori mistificazioni. Scrive l’autrice di Viceversa: «Osservato di spalle, il mondo tende ad apparire non solo più universale, ma più innocuo; riscopre la pietà, la delicatezza, un certo candore». E aggiungiamo: «la libertà», per dirla con un pittore contemporaneo, Domenico Gnoli, che adora le figure di schiena e che ha ritratto di schiena persino la Gioconda.

 

 

 

 

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1 Comment
  • guido villa
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    Recensione ampia e molto interessante per questo bellissimo libro.

    24 Ottobre 2020 at 12:42

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