Di Carrère, di Calvino, e dell’essere ciò che siamo (L’Immaginazione n.320, nov.-dic. ’20)

Di Carrère, di Calvino, e dell’essere ciò che siamo (L’Immaginazione n.320, nov.-dic. ’20)

Emanuel Carrère

«Se fai accadere quello che c’è dentro di te, quello che farai accadere ti salverà. Se non fai accadere quello che c’è dentro di te, quello che non avrai fatto accadere ti distruggerà». Ho appena aperto Yoga, il nuovo libro di Emmanuel Carrère (Pol, e il prossimo anno da Adelphi), che resto colpita da questa epigrafe tratta dal Vangelo apocrifo di Tommaso. Mi fermo subito qui. Non vado nemmeno a leggere la prima e l’ultima pagina della storia, come faccio sempre quando comincio una nuova lettura, perché mi metto a rimuginare su queste due frasi, che vengono direttamente dall’insegnamento di Cristo. Rimandano – per la coscienza moderna – al «diventa ciò che sei» nicciano e al concetto d’individuazione junghiano. Ben oltre l’idea greca antica del «conosci te stesso», semmai più vicino alle parole di Sant’Agostino: «rientra in te stesso: è nel profondo dell’uomo che risiede la verità». L’idea di Gesù è drastica: se fai una cosa, ti salvi. Se fai l’altra, sei perduto. Non c’è una via di mezzo. Una volta raggiunta la verità interiore, il compito è solo a metà: bisogna farla anche “accadere” nella realtà esterna. La verità è alla portata di ognuno, si direbbe. Non è alla portata di ognuno l’impegno di assumersela e quindi mantenersi coerenti, esserle fedeli.

Italo Calvino

Mi torna in mente per associazione La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino. Quelle monache che vanno a votare e lo scrutatore scruta i loro volti reali e li paragona a quelli delle loro foto sui documenti, e dice: «O il fotografo delle monache era un grande fotografo, o sono le monache che in fotografia riescono benissimo». Ma poi ragiona e capisce: le suore “fotogeniche” erano evidentemente quelle dimentiche di sé. Mentre tutti noi, davanti all’obiettivo, tradiamo un’ansia di apparire belli, o almeno decenti, e immancabilmente usciamo fuori «con gli occhi sbarrati, i lineamenti gonfi, un sorriso che non lega». Le suore no, le suore «riuscivano perfette» (almeno molte di loro, quelle non più «strette dall’ambizione terrena»). Succedeva evidentemente, riflette lo scrutatore, quando avevano superato «una soglia, dimenticandosi di sé e allora la fotografia registrava quest’immediatezza e pace interiore e beatitudine». E quindi il comunista Amerigo Ormea, lo scrutatore, si chiede: «E’ bene avere la beatitudine? O è migliore quest’ansia, questa carica che irrigidisce i volti al lampo del fotografo e non ci fa contenti di come siamo?… Non sapeva cosa avrebbe voluto: capiva solo quant’era distante, lui come tutti, dal vivere come va vissuto quello che cercava di vivere».

Beatitudine, profondità, interiorità. Torno a Carrère e ripenso a una frase che ho sottolineato in un altro suo libro, Vite che non sono la mia, quando scrive di aver fatto «coi suoi mezzi e i suoi limiti» il possibile perché la sua esistenza non fosse quel «processo di demolizione» che secondo Fitzgerald è qualsiasi vita. Ma, ammette Carrère: «L’essenziale, che è l’amore, l’ho mancato». (Vedo, per inciso – adesso che un po’ mi sono messa a leggere Yoga – che a un certo punto si autocita, e cita proprio quel passo cui accennavo da Vite che non…).

Ma allora è l’amore ciò che dovremmo far accadere dentro e fuori di noi? Diventare quel che siamo vuol dire davvero che saremo migliori? Forse sì, dopotutto, perché almeno saremo autentici. E, mi par di capire in questa mia divagazione un po’ sconclusionata da Carrère ai Vangeli a Italo Calvino e ritorno, che in gioco ci sia proprio uno dei grandi problemi dei nostri giorni: la devastante, onnipresente inautenticità, quell’immersione ormai inarginabile nell’esteriorità e nella pubblicità, quel costante vendere qualcosa e vendere se stessi.

Hai un bel fuggire – come ha tentato Carrère, come hanno tentato e tentano in tanti (io compresa parecchi anni fa) – nel buddismo, nello yoga e nella meditazione. Poi bisogna tornare sulla terra, uscire dai monasteri, visto che monaci non siamo. E la società che ci circonda, che respiriamo, non sosterrà il nostro sforzo, quella nostra disperata ricerca di interiorità e di fedeltà a essa, il tentativo di essere per gli altri quel che abbiamo scoperto di essere “dentro”. Accenderemo la tv, avvieremo il computer. E il messaggio sarà uno solo, onnipresente, onnipotente: gente che partecipa ai talk-show, dice la sua e appena può fa vedere il libro che ha scritto, il film che ha girato, la canzone che ha composto. E vende il suo prodotto (e immancabilmente se stesso). E poi lo show che stiamo seguendo o il film che stiamo guardando, sarà interrotto. Dalla pubblicità naturalmente. E se sul computer compriamo un biglietto per fare un viaggio, saremo schiavi di altra pubblicità. Perché tutto è tracciato, qualsiasi gesto, qualsiasi gusto, qualsivoglia nostra preferenza. E giù un bombardamento di proposte, on-line, al telefono, dappertutto. Ma come facciamo a vivere così? Dove è finita la nostra interiorità?

Beh, ora mi metto seriamente a leggere Yoga.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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