Addio a Luisa Adorno (Il Foglio 16/7/21)

Addio a Luisa Adorno (Il Foglio 16/7/21)

La scrittrice ai tempi del suo esordio letterario

In casa, nel quartiere San Giovanni a Roma, aveva sui quindici mila libri, strizzati in librerie che correvano in tutte le stanze, «stantuffati» per usare una sua espressione (da Tutti qui con me, pubblicato da Sellerio nel 2008). Le piacevano le parole prese dal dialetto della sua Toscana (era nata a Pisa nel 1921) e dell’altrettanto sua Sicilia, dove aveva avuto una casa amatissima sulle pendici dell’Etna. «Alluciato» per abbagliato, «scorbellato» per dire sfrenato. «La  tu’ nonna è una lavoratora» (e questo lo trovo ne Le dorate stanze). Anche per queste incursioni del dialetto, e due dialetti tanto diversi, era una lingua ricca, vivace quella di Luisa Adorno che ci ha lasciato martedì a quasi cent’anni (da compiere il 2 agosto). Quando arrivava in casa un nuovo libro pensava: «Sarà la goccia che farà traboccare il vaso, ci ritroviamo al piano di sotto». Lo confessò, con spirito sorridente, al giovanissimo Giorgio Ghiotti che la intervistava per il suo Mesdemiselles. Le nuove signore della scrittura (Perrone 2016). Una splendida intervista in cui Mila Curradi (questo il vero nome) viene fuori con tutta la leggerezza ironica di un carattere aperto e sincero. Aveva preferito uno pseudonimo per via del contenuto “privato” del suo esordio («racconto solo i fatti miei e di famiglia» diceva ridendo) e aveva continuato a usarlo anche in seguito.

La Sicilia era nel suo destino: siciliano il marito, siciliano il suo editore. Andò così: il primo libro, L’ultima provincia (riproposto proprio in questi giorni da Sellerio, -176 pagine, 10 euro – in una nuova collana tascabile, Promemoria) uscì nel 1962 da Rizzoli e si fece subito notare. Racconta del padre di suo marito, Vincenzo Adorno, divenuto prefetto «in quello spazio di tempo incredibilmente breve in cui, non valendo più le raccomandazioni fasciste, non esistevano ancora quelle del nuovo governo», e racconta delle vicende di un podere chiamato Bosco Canniti. «Quann’eramo a Bosco Canniti…» è il ritornello dell’indimenticabile domestica Concetta che dà il via ai ricordi. Il paese dove aveva sede la prefettura, chiamato S, si trovava a due chilometri ed è là che esercitava questo suo suocero lontano dalla destra come dalla sinistra, innamorato soltanto dei suoi due ettari sul vulcano: «Un pezzetto di terra nera e fine come rena, accidentato da massi di lava, con balze, poggi, strapiombi improvvisi».

Mila Curradi, in arte Luisa Adorno

Il romanzo suscitò immediato interesse. In particolare Anna Banti e Roberto Longhi lo promossero con convinzione. Ma l’editore lo abbandonò, e Luisa si sentì trascurata e non scrisse altro per anni. Ma poi arrivò Leonardo Sciascia che nel 1983 pensò di riproporre quel titolo da Sellerio nella collana di narrativa di cui aveva preso a occuparsi. E così i libri di Luisa Adorno, otto in tutto, sono usciti con la casa editrice siciliana. Più che romanzi sono memoir, raccontati in un flusso di luminosissimo realismo. Da Arco di luminara a Foglia d’acero (scritto intorno al diario ritrovato di un misterioso zio, Daniele Pecorini Manzoni, fuggito in Estremo Oriente all’inizio del ‘900), da La libertà ha un cappello a cilindro ai racconti di Come un ballo in maschera, fino ai ritratti di amici di tutta la vita raccolti nell’ultimo, Tutti qui con me, del 2008. Libri pieni della sua vita (la morte della madre ancora giovane, la perdita della casa a Pisa sotto un bombardamento, il viaggio da sfollata verso Roma su un camioncino traballante, la Resistenza, l’amore, il matrimonio, la perdita di una figlia scomparsa a cinquant’anni). E su tutto una leggerezza da eterna ragazza che procede in bicicletta, mentre s’innalza inaspettato un canto come un profumo nell’aria: «Sebben che siamo donne paura non abbiamo…» a far rivivere il ricordo di un naturale femminismo, o «Io cerco la Titina, la cerco e non la trovo…» a rimestare un ancora inesplorato erotismo adolescenziale.

Si era riconosciuta vecchia improvvisamente, Luisa Adorno, a novantadue anni, dopo una banale malattia. Ma non riusciva proprio a crederci.

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