L’Inferno e l’Inconscio (Bio’s, ottobre-novembre 2021)

L’Inferno e l’Inconscio (Bio’s, ottobre-novembre 2021)

Si sono incrociati quest’anno diversi centenari: due secoli fa, nel 1821, moriva a Roma, a soli venticinque anni, il poeta inglese John Keats, era il 23 febbraio; mentre il 9 aprile dello stesso anno nacque a Parigi Charles Baudelaire e a Mosca, l’11 novembre, Fëdor Dostoevskij, mentre il 5 maggio aveva chiuso gli occhi a Sant’Elena Napoleone. Dante è scomparso nella notte fra il 13 e il 14 settembre del 1321, a Ravenna: settimo centenario il suo, il più distante, ma anche il più celebrato. Si sono infatti moltiplicati su Dante convegni e libri. L’ultimo in ordine di tempo che mi è capitato di leggere è di Antonio Moresco, un narratore appassionato da sempre al grande fiorentino. S’intitola La Vita nova di Dante (ilSaggiatore) ed è un corpo a corpo fra l’autore e quest’opera incredibilmente innovativa di un giovane, già genialissimo Dante. Scrive Moresco nell’incipit che fa venire voglia di riaprire subito un testo inevitabilmente schiacciato dalla grandezza sovrumana della Commedia: «Più di settecento anni fa un ventenne eccezionalmente emotivo e astratto, arrogante e timido, nasuto, orfano, che sarebbe diventato il più grande poeta italiano di tutti i tempi e uno dei più grandi che siano mai esistiti, mette al mondo un inclassificabile libro rivoluzionario già nel suo emblematico titolo, Vita nova, un libro sconcertante e addirittura sconvolgente se si va sotto la sua superficie poetica, scolastica e teologica, un libro sgangherato e sublime, un miracolo». Segue l’illustrazione “assetata d’infinito” di questo miracolo, un’illustrazione ricca di considerazioni letterarie, meditazioni sul senso del fare artistico, balzi fra biografia e letteratura che aiutano a riportare un monumento entro una misura abbordabile, avvicinandolo alla contemporaneità in una rinnovata attenzione. A un certo punto Moresco fa questa riflessione: «Dante come Cervantes, come Dostoevskij, è uno di quelli che crescono via via in modo inimmaginabile ed esponenziale». È così, ci sono romanzieri che sono già se stessi al primo libro, altri che continuano a ingigantire nel corso di un’intera esistenza e a dare il meglio di sé, o la parte che li renderà immortali, nel corso del tempo, magari addirittura nella vecchiaia.

Födor Dostoevskij

Per esempio proprio Dostoevskij – già grande alle prime prove: ha fra i venti e i trent’anni quando scrive Povera gente, Il sosia, Le notti bianche – diventa il travolgente scrittore che conosciamo, capace di scavare nei più inconfessabili segreti dell’animo umano, con i capolavori della maturità, da Delitto e castigo in poi. Mi ha colpito un ricordo di Julia Kristeva nel recente Dostoevskij, lo scrittore della mia vita (Donzelli, tradotto dal francese e dal russo da  Lila Grieco): «Con gli occhi inchiodati su L’idiota, mio padre me ne aveva sconsigliato la lettura: “Distruttivo, demoniaco e vischioso, lascia perdere!”. Come al solito, ho disobbedito ai consigli paterni, e mi sono immersa in Dostoevskij. Ne sono rimasta abbagliata, sopraffatta, inghiottita». E dunque Kristeva ha dedicato allo scrittore russo questo libro essenziale in cui mescola autobiografia e citazioni dai romanzi più amati, trovando nuove chiavi di lettura. «Dostoevskij ha messo in scena» scrive fra l’altro la studiosa «la psicopatologia umana, dalla pedofilia al femminicidio. Le sue figure femminili sono coraggiose, degne, rifiutano la schiavitù e l’essere considerate oggetti sessuali».

Già nelle passeggiate notturne delle Notti bianche ci imbattiamo in una splendido personaggio femminile, una giovane donna, Nasten’ka, che fedele a un suo sogno d’amore resiste alle lusinghe dell’accompagnatore notturno innamorato di lei, mentre lei è innamorata di un altro che sembra averla dimenticata. E alla fine quel sogno si realizzerà lasciando il protagonista sconfitto, ma pieno della beatitudine di un attimo di speranza, quando aveva creduto di aver conquistato la refrattaria Nasten’ka  («È forse poco per riempire tutta la vita di un uomo?» si chiede). Ben più strutturate saranno poi le figure femminili dei grandi romanzi. In Delitto e castigo è l’umile Sonja, Sònečka, a smascherare l’arrogante follia di Raskòl’nikov quando lui dichiara: «Ma dopotutto ho ucciso solo un pidocchio, Sonja, solo un inutile, ripugnante, nocivo pidocchio!» E lei: «Ma come può una creatura umana essere un pidocchio!» Le donne nei Demoni e nei Fratelli Karamazov sono forti e volitive, sono forse gli unici personaggi capaci di un’evoluzione nei romanzi dello scrittore, accusato di trascurare la psicologia dei suoi eroi per farne incarnazioni di idee, idee spesso in contrapposizione le une alle altre in un pensiero letterario mai “unico” o prescrittivo sulle cose di questo mondo e dell’altro.

Julia Kristeva

Suggestionata dal libro di Kristeva, ho cominciato, per dir così, lateralmente, dalle figure femminili, a raccontare un narratore in cui centrali sono i tormentati personaggi maschili e che è stato definito «polifonico» da uno dei suoi critici più importanti, Michail Bachtin, per la particolare caratteristica che dicevamo di concedere al loro pensiero un’assoluta libertà, persino a spese della compattezza e della compiutezza delle storie raccontate. Altri hanno riconosciuto in questo la scoperta dell’uomo interiore o per dirla in termini moderni, la scoperta dell’inconscio prima di Freud (Fëdor muore quando Sigmund ha poco più di vent’anni). Ed è, credo, proprio questa magmatica esperienza interiore degli eroi dostoevskiani e delle loro coscienze inquiete, con la discesa agli inferi del proprio buio, del male, della colpa, a intrigare di più il lettore, soprattutto il lettore giovane, ben oltre i contenuti e gli intrecci a volte fin troppo intricati.

Ecco, prima ho evocato Dante. Dante all’Inferno ci va fisicamente, lui vivo in mezzo ai morti. Ascolta storie crudeli di errori, passioni, crimini. Ascolta e contempla, a volte giudica e interviene. Si arrabbia. Attribuisce ai suoi personaggi invettive che farebbe volentieri in prima persona, «ahi Pisa, vituperio de le genti…», ma poi prosegue, è diretto in Paradiso del resto… Dostoevskij l’inferno lo porta con sé, ci si rotola dentro e quindi lo trasferisce nei romanzi che crea, non ne esce. Fin dal Sosia, scritto a soli ventiquattro anni e percorso da un’irresistibile ironia gogoliana, in cui il male è esteriorizzato in un doppio persecutorio, per arrivare ai più ossessivi, esagerati personaggi della maturità, Raskòl’nikov e i Karamazov, per non parlare dei vari “demòni”, come – a suo modo – il principe Myškin dell’Idiota: il Buono assoluto. È il costante contatto col Male, in una sempre presente aspirazione al Bene, che affascina e insieme esaspera in Dostoesvkij. Perché anche questo va detto: leggerlo è spesso l’esperienza di una corsa a perdifiato per star dietro a pagine traboccanti conflitti nevrotici quando non vera e propria follia. Conflitti che appartengono ai personaggi, d’accordo, ma risuonano eco di devastanti vicende vissute dall’autore.

Il vecchio sceneggiato tv dai Karamazov con Corrado Pani

Un po’ di biografia: la madre, religiosissima e amante della letteratura e della musica, muore di tisi quando Fëdor è sedicenne. Il padre, che si era dato all’alcool e si comportava da tiranno verso i suoi contadini e dipendenti, viene ucciso in circostanze oscure dal suo cocchiere nel 1839. Fëdor  ne è profondamente turbato fino a sentirsene responsabile, per non aver saputo prevedere e scongiurare un’evenienza del genere. Ce n’è una forte traccia nel personaggio di Dmitrij dei Karamazov («Ciascuno di fronte a tutti è per tutti e di tutto colpevole. E non solo a causa della colpa comune, ma ciascuno, individualmente»). Dopo la morte del padre, ha il primo attacco di epilessia, una malattia che lo accompagnerà fino alla tomba, nel 1881, e che aveva ucciso a soli tre anni un suo figlio, Aleksej. Un altro grande lutto era stata, nel 1864, la perdita del fratello Michail, generoso sostenitore del suo talento letterario, col quale aveva condiviso il lavoro giornalistico fondando due riviste d’impegno politico-letterario. Un fratello che lo aveva aiutato spiritualmente anche durante l’esperienza più rovinosa della sua vita, la condanna a morte per azioni sovversive contro lo zar, convertita all’ultimo momento, di fronte al plotone di esecuzione, in quattro anni di detenzione. «A chi sa di dover morire, gli ultimi cinque minuti di vita sembrano interminabili, una ricchezza enorme» dice Myškin. La terribile detenzione in Siberia, nella fortezza di Omsk, torna nello straziante Memorie da una casa di morti. E in Delitto e castigo: «Dove mai ho letto che un condannato a morte, un’ora prima di morire, diceva o pensava che, se gli fosse toccato vivere in qualche luogo altissimo, su uno scoglio, e su uno spiazzo così stretto da poterci posare soltanto i due piedi – avendo intorno a sé dei precipizi, l’oceano, la tenebra eterna, un’eterna solitudine e una eterna tempesta –, e rimanersene così, in un metro quadrato di spazio, tutta la vita, un migliaio d’anni, l’eternità, anche allora avrebbe preferito vivere che morir subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!»

La seconda moglie, Anja

Dopo la morte del fratello si apre per  Dostoevskij un decennio di sbandamento, in cui diventa schiavo del gioco. Ne è rimasta testimonianza in tante lettere e in un romanzo, Il giocatore, del 1866, quando ancora era immerso in pieno in quella devastante dipendenza. Giocava alla roulette, vinceva, perdeva. Si esaltava, si detestava. «Domani, domani tutto finirà!» è l’ultima frase del romanzo. Ma domani non si resiste, si rientra nel Casinò e si punta, si punta fino a perdere tutto. Tutto, fino a non avere nemmeno un soldo per mangiare, per dar da mangiare alla famiglia, ai figli. Le lettere che spediva erano disperate, chiedeva aiuto, chiedeva perdono, chiedeva prestiti su prestiti. Scriveva ad Anna, la giovane seconda moglie (della prima era rimasto vedovo), all’amante Apollinarija – la Polina del Giocatore – scriveva agli amici, fra i quali Turgenev, lui pure affetto dallo stesso vizio. Fu la nascita di un altro figlio a liberarlo, un figlio a cui diede il suo stesso nome, Fëdor. Come analizzò Freud nel saggio Dostoevskij e il parricidio, lo stress del gioco, il senso di colpa – l’antica colpa di aver “ucciso” il padre – e alla fine il perdere tutto e andare a fondo lo portavano alla scrittura come a un’ultima spiaggia, al bisogno di emersione e riscatto. Una catena infernale che ha prodotto un’opera grandiosa e insieme fragile.

Vladimir Nabokov

Vladimir Nabokov in un celebre saggio delle Lezioni di letteratura russa non ha difficoltà a smantellare la costruzione letteraria dostoevskiana con diabolica anche convincente determinazione: «Sono impaziente di ridimensionare Dostoevskij» è l’esordio. Ma per quanto possa muovere critiche esatte, il risultato è che il genio di Dostoevskij ne esce intatto. Forse proprio per la sproporzionata, inclassificabile,  a volte sconclusionata grandezza.

E adesso, per finire chiudendo il cerchio, torno a Dante, che trovo citato di sfuggita nel capitolo dei Karamazov intitolato «Il Grande Inquisitore». È solo una rapidissima apparizione. Però forse sufficiente a smentire la diceria che Dostoevskij non avesse mai letto la Divina commedia.

 

 

 

 

 

 

 

 

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