Duras mon amour (L’Espresso 24/4/22)
Nelle librerie francesi è in bella evidenza il volume appena uscito di lettere inedite che Marguerite Duras scambiò fra il 1969 e il 1989 con l’amica cineasta Michelle Porte. S’intitola Lettres retrouvées, edito da Gallimard, nuova conferma che in Francia, per una scrittrice che è un indiscusso monumento nazionale, l’attenzione può appannarsi ma non si spegne. Non così altrove. Dopo la sbornia universale per il film L’amante di Jean-Jacques Annaud, che nei primi anni Novanta rinverdì lo straordinario successo dell’omonimo romanzo uscito nel 1984, l’astro della prodigiosa, innovativa, provocatoria autrice è andato via via affievolendosi fino quasi a estinguersi e adesso, almeno da noi, non si trova granché della sua vasta opera nemmeno in rete: soltanto L’amante, e i testi erotici di Occhi blu, capelli neri (non le cose migliori che ha scritto), e lo scioccante diario di guerra Il dolore, riattualizzato da un notevole film del 2017 di Emmanuel Finkiel. Non so da quanto tempo si sono perse notizie di Una diga sul Pacifico, apparso in Francia nel 1950, che andrebbe decisamente riproposto in una nuova traduzione (quella uscita nei Gettoni einaudiani e poi ripresa da Mondadori nel ‘61 era imprecisa e molto brutta). Alla riapparizione di questo splendido romanzo non è stato purtroppo di aiuto nemmeno il cinema, che ne fece allora un fumettone di René Clément con Silvana Mangano, Alida Valli, Anthony Perkins, e più recentemente (2008) un remake dimenticabile malgrado la presenza della carismatica Isabelle Huppert.
Riuscirà adesso a riaccendersi, ancora una volta grazie a un film, l’interesse per Duras? È infatti arrivato nelle sale il 21 scorso Suzanna Andler, di Benoît Jacquot (che fra l’altro fu aiuto regista, da giovane, della scrittrice cineasta). È tratto da una pièce teatrale che pochi conoscono, ma che fu tradotta nel ‘68 da Natalia Ginzburg per Einaudi, ristampata alla fine degli anni Ottanta e oggi introvabile. Protagonista della pellicola è una Charlotte Gainsburg molto durasiana, e voglio dire con questo che dà splendidamente forma a una tipica figura femminile della scrittrice: sofferente per amore, introversa, imbronciata, ambigua. Ha addosso quasi tutto il tempo, sul vestito cortissimo, una pelliccetta cheap, identica a quella che portava spesso la stessa Duras, quasi a sottolineare i contenuti autobiografici del testo.
«La nostra sarà una storia senza importanza. Non metterti in testa che sia una grande passione», così Michel, il giovane amante di Suzanna (l’attore Niels Schneider) l’aveva messa in guardia all’inizio della loro relazione. E praticamente le stesse parole – «avremo una storia senza importanza» – aveva detto a Marguerite uno dei suoi grandi amori, Dionys Mascolo, che poi sarebbe diventato il padre del suo unico figlio e le sarebbe rimasto amico affettuoso fino alla fine, anche molto dopo la rottura e le vicissitudini di altri grandi amori nella vita di lei. Perché l’amore è il perno del narrare di Duras come della sua esistenza, amore che diventa riflessione sull’impossibilità di essere autentici, amore inteso come aspirazione a capirsi da una parte, e scacco continuo dall’altra. È la sua grande metafora della condizione umana.
Suzanna Andler sa di essere tradita dal marito, ma non lo lascia, per paura, per abitudine, per pigrizia, per un oscuro desiderio di farsi del male. Non è nemmeno certa riguardo ai sentimenti che prova per Michel, né di quelli di Michel per lei. La scena si svolge in una ricca casa di vacanza con vertiginoso affaccio sul mare, che la protagonista deve decidere se prendere o no in affitto per l’estate. Un andirivieni fra salotto e terrazza che suggerisce ripetutamente l’attrazione per il vuoto sull’abisso di una scogliera, e anche su quello sentimentale. Il marito di Suzanne è una voce al telefono. Il suo giovane amante una presenza altalenante fra desiderio di restare e scapparsene via. È un cinema immobile, quello di Duras. In certi suoi film si muove solo il vento e la polvere (penso a Son nom de Venise dans Calcutta désert). Oppure è un cinema di parole spezzate, urlate (penso a India Song), ma non è mai intimo. Anzi semmai filosofico. E in Suzanna Andler si arriva a una verità sfuggente, quanto incontestabile: l’altro «è inconoscibile, salvo nel desiderio». Soltanto l’eros riesce ad accorciare improvvisamente distanze altrimenti incolmabili.
In un’intervista del ‘77 a Michelle Porte, Duras le aveva detto del proprio lavoro cinematografico: «Le diranno che non è cinema. Eppure qualcosa sullo schermo c’è. Qualcuno che parla, c’è un’immagine…» Si sarebbe spinta a un certo punto fino a sfidare gli spettatori avvolgendoli di buio, ma non per provocare, perché quello era in quel momento il suo modo di esprimersi, era ciò che voleva dire negando al contempo la possibilità di dirlo. Nell’Uomo atlantico, dedicato al suo ultimo amore, il tanto più giovane Yann Andréa, gli spiega: «Mentre non vi amo più non amo più altro, altro che voi, ancora», perché «è attraverso la vostra mancanza di sentimento che ritrovo la vostra particolare qualità. Quella appunto di piacermi».
Quando scrive Suzanna Andler, l’omosessuale Yann non è ancora comparso nella sua vita. Marguerite aveva appena attraversato anni pieni di abbandoni e di morte. Era morto il suo grande amico Elio Vittorini, ed era morto Gérard Jarlot, per il quale aveva rotto definitivamente con Mascolo e che poi l’avrebbe lasciata per telefono, vigliacco e bugiardo come nessun altro. Ma l’amore resta sempre e comunque per lei una divinità inaffidabile, perversamente desiderabile. È il suo tema. Eppure non è mai stata un’autrice per donne. Piaceva a Lacan, e Foucault una volta le scrisse: «Lei è lo scrittore di cui avevo bisogno». Samuel Beckett amava il suo teatro, e così Alain Resnais, che aveva adorato anche Moderato cantabile, il racconto che la avvicinava al Nouveau roman. Ma come ogni grande scrittore, lo sperimentalismo per lei era un mezzo, non un fine. Ed è per questo che si può continuare a leggerla con il piacere di una lettura persino naïve. Non bisogna temere Duras: non è un’intellettuale, è una scrittrice di carne e di sangue. E questo nuovo film, che torna a proporcela, questo Suzanna Andler che la rispetta profondamente, credo lo dimostri. Dopo però, dopo aver visto il film, bisognerebbe poter andare in libreria e trovare i suoi libri. Speriamo succeda, speriamo che l’editoria si svegli e torni a tradurla e pubblicarla.