Addio a Biancamaria Frabotta (IlFoglio, 3/5/22)
«Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano ma sono ovunque noi siamo». Adesso che Biancamaria Frabotta ci ha lasciati, questa epigrafe che accompagna i versi della sua nuova raccolta, Nessuno veda nessuno, in uscita a fine mese da Mondadori, ha qualcosa di profetico. Così come quello che andava dicendo: «Sarà il mio ultimo libro». Ma diceva così solo perché i libri di versi si mettono insieme negli anni, molti anni – e lei era nata a Roma l’11 giugno nel 1946, ne aveva già settantasei di anni – non certo perché le mancasse la voglia di vivere, e di guardare il mondo, e di scrivere. Anzi era un buon periodo: il ritorno in libreria del suo unico romanzo, dell’89, Velocità di fuga (FVE edizioni) le aveva dato molta allegria: la storia di un gruppo di giovani intellettuali, maschi presuntuosi e femmine battagliere, un “come eravamo” nel ‘68 o giù di lì, un intenso discutere di letteratura e di politica in vecchi scantinati che sarebbero poi diventati teatrini off. C’era tanto femminismo nell’opera poetica e saggista di Biancamaria, come in quel romanzo di formazione (così lo definiva lei) in quei lontani anni 70-80, e poi il respiro si è dilatato in grandi tematiche sapienti, sul dolore, la vita, le guerre (non più solo quelle fra i sessi), il passato classico che irrompe nella contemporaneità.
Credo che il suo motto fosse: «Bisogna di nuovo imparare a vivere», come scrive in una poesia de La materia prima. Rimparare ogni volta, dopo un dolore, una malattia, una perdita. E lei lo faceva sempre, con forza e convinzione. E con una sottile allegria, esplodendo magari in una risatella. E Risatelle è il titolo di un delizioso scambio in versi fra Biancamaria e il marito Brunello Tirozzi, di professione fisico, ma ormai assunto anche lui nelle file della poesia, pubblicato da Empiria nel 2016: «Sulla via che s’allontana/ finché non trema la mano/ la poesia la noia inganna/ o nostra dolce manna» scriveva lei in quel libretto. Perché era la letteratura la soluzione, la grande risorsa degli esseri creativi, più esposti alla sofferenza e alla malinconia forse già per carattere, ma capaci di dimenticare il mondo per non vedere altro che la scrittura. «Mi presti i tuoi occhi per guardarti? /A chi negheresti una lente nitida sul mondo?» diceva in Lo sguardo del poeta del ‘91. Uno sguardo assente, eppure capace di leggerlo quel mondo misterioso, e interpretarlo e in qualche modo spiegarlo. Con la poesia e con tanta saggistica nel suo caso. Fondamentale, per esempio, fu il suo studio su Giorgio Caproni. Il poeta del disincanto (Officina, 1993), e disincanto, a pensarci adesso, è un’altra parola chiave del pensiero di Biancamaria Frabotta. È pieno di disincanto il volume mondadoriano Tutte le poesie 1971-2017 (postfazione di Roberto Deidier, nota biobibliografica di Carmelo Princiotta) che l’ha consacrata quattro anni fa. La consapevolezza costante della precarietà: quel sentirsi leggeri e fuori pericolo per poi cadere improvvidamente sulle proprie gambe e non rialzarsi più.