Una guerra di ieri che è la guerra di oggi (su Domani 6/5/22)

Una guerra di ieri che è la guerra di oggi (su Domani 6/5/22)

Arkan e il tigrotto

Mi è rivenuto in mente all’improvviso il comandante militare detto Arkan, al secolo Željko Ražnatović, di etnia serba, criminale di guerra, massacratore di gente inerme, stupratore di un numero imprecisato di donne “nemiche”, ovvero bosniache, amico di Milošević. Mi è tornata in mente una foto in cui impugnava fieramente un’arma micidiale in una mano e con l’altra teneva per la collottola – come fosse un gatto – un povero tigrotto (chissà che fine gli avrà fatto fare), simbolo della formazione paramilitare da lui istituita, chiamata appunto le «Tigri di Arkan». Mi è tornata in mente quella foto leggendo un romanzo, E poi saremo salvi (Mondadori, p. 271, 18 euro) di Alessandra Carati, al suo esordio nella narrativa, quando più o meno a metà della storia racconta di un giorno di maggio del 1992: «Arkan e le Tigri erano piombati sulle case, le avevano svuotate e le avevano bruciate perché spettavano ai serbi. Poi avevano prelevato tutti i maschi, anche i più piccoli […] Allora nessuno lo sapeva, quei settecento uomini stavano per essere uccisi». E poi saremo salvi (candidato al premio Strega, approfitto per fare all’autrice i miei auguri) è la vicenda temeraria di una famiglia bosniaca che scappa dalla guerra e ripara in Italia: la piccola Aida, che all’inizio ha solo sei anni, e i suoi genitori. Dopo qualche mese, a Milano, nasce un fratellino, che pagherà duramente il suo essere sradicato e prole di sradicati.

Alessandra Carati

Dico temeraria perché non è per niente facile narrare una storia dentro la Storia e, oltretutto, una storia per sentito dire: Carati ha scavato nel passato recente, è andata a documentarsi nei posti dell’ex Jugoslavia dove sono accadute tante cose che racconta, ha probabilmente conosciuto la famiglia protagonista del suo romanzo o diverse famiglie di cui ha riorganizzato, reinventato le vicende, ma quella che narra non è la sua guerra e non è la sua nazione. Malgrado ciò, è riuscita – ed è l’aspetto più interessante – ad amalgamare pubblico e privato, a far riverberare gli avvenimenti terribili sulla quotidianità di personaggi che – pur travolti dalla tragedia – sono come tutti gli altri, e devono vedersela con le emozioni profonde, con amori e risentimenti, con relazioni familiari complesse, con un senso di sconfitta non solo sociale ma intimo, provato fra le pareti domestiche. Un padre sordo a certi sottili bisogni del figlio, una madre fredda con la figlia femmina, troppo arrendevole col figlio maschio e uno sfaccettato rapporto fra sorella e fratello che negli anni sperimenteranno un doloroso percorso divergente dove l’elemento femminile si dimostra più solido di quello maschile, disintegrato dalla malattia psichica.

C’è davvero tanto in questo romanzo, forse solo un pochino troppo studiato a tavolino, forse proprio per il tanto materiale in gioco e per il bisogno che tutto “torni”, che tutto combaci, laddove la letteratura richiede invece l’imprevedibile, il tirare i dadi sul nulla, ogni tanto. Ma è del resto un difetto che Carati condivide con la sua generazione e con quelle ancora più giovani, ed è il difetto di un’editoria che pretende dagli autori un eccesso di consapevolezza e non li stimola alle scommesse fuori misura, quelle che potrebbero sconvolgere (sempre positivamente, secondo me) il lettore. In definitiva, però, l’impressione è che questo Carati lo sappia, visto che in esergo cita tre scrittrici fra le meno classificabili come Cristina Campo, Clarice Lispector, Simone Weil. Confesso che è stata la loro presenza fra le pagine a convincermi a leggere da capo a fondo questo romanzo. Erano per me un segnale segreto, mi schiacciavano l’occhio, mi dicevano: dai, vai avanti. E così ho fatto, per scoprire che questo libro riesce anche a volare, e proprio quando si concede di cadere in contraddizione, come sta lo stesso titolo a indicare, per fare un esempio eclatante. Titolo che viene dalla piccola frase sommessa che la madre dice ad Aida all’inizio, mentre sono in fuga in pullman verso il confine. Cosa succederà? chiede Aida. Andremo oltre il confine. E poi? «E poi saremo salvi».

Che altro è questa frase se non l’indicazione di un doppio significato rispetto alla frase in sé e rispetto all’intero romanzo? Contiene infatti, accanto al respiro di sollievo che sembra suggerire, un amaramente ironico sottotesto, una domanda inespressa: quando saranno in salvo le nostre vite, cosa ne sarà di noi? È la domanda delle domande, perché in salvo non si è veramente mai. È solo la più desolante delle illusioni credere che Aida e la sua famiglia, una volta superato il confine, avranno superato lo scacco della loro condizione. Giusto il tempo di tirare il fiato e poi il problema dell’integrazione, quello della separazione dai nonni rimasti caparbiamente in Bosnia, quello di un difficile ritorno, a guerra finita, per cercare i morti e i sopravvissuti, gli scomparsi e i dispersi, a contemplare le rovine della vita e della terra perdute. Ma soprattutto il problema di tenere insieme la propria esistenza, quella di tutti i giorni con i mai facili rapporti col mondo, qualunque esso sia, dovunque ci si trovi.

Bombardamento a Sarajevo

Ecco la temeraria Carati tutto questo racconta, accanto a tanti episodi significativi intrecciati in una trama mai banale. Ma credo che abbia anche un’altra imprevista freccia al suo arco. Questo suo libro, scritto da tempo, e uscito nella scorsa primavera, è adesso di impressionante attualità. Il premio Strega ce lo propone mentre siamo tutti sconcertati, turbati, sconvolti da un bombardamento di immagini mai visto prima. La guerra in Ucraina ci viene raccontata dai media nei dettagli e in continuazione, passo dopo passo, nulla ci viene risparmiato: lacrime, devastazioni, cadaveri, gente disperata e in fuga, bambini travolti, animali abbandonati e disorientati, orrori su orrori. E noi, relegati al ruolo di spettatori impotenti a porci l’eterna domanda: come è possibile che l’uomo sia capace di questo, ancora e ancora?

Quelle madri che vediamo in televisione, che accarezzano inespressive i loro piccoli, quegli uomini e quelle donne che cercano i loro cari fra i morti, i loro oggetti nelle case distrutte, sono persone che fino a pochi mesi fa avevano una vita normale: uscivano a fare la spesa, andavano a cena con gli amici, partivano in vacanza. Lo sceneggiato Servitore del popolo, trasmesso a puntate dalla Sette e interpretato dal presidente ora eroe nazionale ucraino, Volodymyr Zelensky, ci parla di una società identica alla nostra, almeno com’era prima, prima di essere travolta dall’insensata volontà predatoria e sterminatrice di un uomo, uno solo, Vladimir Putin.

Ecco, il romanzo di Alessandra Carati rende più decifrabile e vicino il destino e i sentimenti di quelle persone che potremmo essere noi. E ci tocca profondamente.  Non ricordo di aver vissuto con altrettanto pathos negli anni Novanta la guerra in Jugoslavia. Non ci veniva raccontata così puntualmente. Eppure era un paese vicino, vicinissimo, più vicino dell’Ucraina. E amici scrittori partivano per portare aiuto e soccorsi, non eravamo indifferenti. Ma era davvero una guerra civile, e non c’era la minaccia di un pazzo col dito pronto a spedire sul mondo la bomba atomica.

Ora, credo, siamo tutti più coinvolti e sperduti. Abbiamo la sensazione che il mondo più o meno stabile, in cui abbiamo vissuto fin qui, stia in un modo o nell’altro saltando in aria. La famiglia che Carati racconta in aria è saltata, ed è per questo che il suo libro oggi è di preoccupante e intensa attualità. Arkan fu assassinato il 15 gennaio del 2000 nella hall di un albergo di Belgrado, mentre parlava simpaticamente con degli amici e prima di poter essere sottoposto a giudizio come autore di un genocidio. Ma c’è sempre un nuovo Arkan pronto a scatenare la sua furia omicida.

 

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