Magnifici sessantenni: Carrère, Houellebecq, Reza (L’Espresso, 21 agosto 2022)
Quando nel 1987 l’editore Theoria pubblicò in Italia Baffi, l’autore, Emmanuel Carrère, aveva trent’anni, era al suo terzo libro e riceveva in patria un buon riconoscimento di stima. Era un uomo introverso e timidissimo, niente faceva immaginare l’evoluzione nel protagonista di successo di oggi, scrittore fra i più tradotti e apprezzati in Europa, che da sempre interessato da biografia e autobiografia, ha fatto della commistione fra generi diversi la sua cifra originalissima e molto attuale. In Italia, in particolare, è al centro di una quasi indiscussa idolatria e il quotidiano La Repubblica, per cui Carrère ha pubblicato un lungo reportage a puntate sul processo del Bataclan (13 novembre 2015, 130 vittime), offre adesso ogni venerdì ai suoi lettori, fino al 2 settembre, un suo libro a prezzo scontato grazie all’accordo con l’editore italiano, Adelphi. Sono sette titoli fra i più interessanti, da Un romanzo russo a L’avversario a Limonov al recente Yoga in cui fra l’altro Carrère dice di sé: «Vorrei essere un uomo buono, vorrei essere un uomo attento ai suoi simili, vorrei essere un uomo affidabile. Sono narcisista, instabile e ossessionato dall’idea di essere un grande scrittore».
Forse è anche questa sincerità a intrigare i suoi tanti lettori, la capacità estrema e spesso imbarazzante di autorappresentarsi in una luce livida e desolante, fragile, vergognosamente nevrotica. Anche se ho il sospetto che tante delle sue molte lettrici siano affascinate dall’eros che si sprigiona nelle sue pagine, eros che unisce una dose di perversione e allegria a una rassicurante tendenza all’affettività e alla coppia. Anche quando sembra prendere le distanze da se stesso, per esempio nel recente film Tra due mondi, di cui è regista, protagonista una meravigliosa Juliette Binoche, Carrère affronta qualcosa di personale. È la storia di una scrittrice che, per descrivere un ambiente molto lontano dalla propria vita, decide di lavorare come domestica accettando gli impieghi più umili. Ed entra così bene nel ruolo da diventare amica di altre donne, sfruttate e abbrutite dalle pesanti condizioni di lavoro. Ma l’umiliazione più grossa quelle giovani donne la subiranno proprio da lei, libera di allontanarsi dal loro mondo degradato, tradendo la loro amicizia per scrivere il suo libro e averne affermazione e successo. È la domanda che un autore come Carrère si pone continuamente: quanto si è responsabili, come artisti che s’ispirano alla propria vita e a quella degli altri, verso le persone coinvolte? È lecito utilizzare “vite che non sono la nostra” – parafrasando un altro suo titolo – per scrivere fiction? Amici, conoscenti, ma soprattutto amanti, fidanzate, ex mogli dello scrittore – raccontano le cronache – si sono spesso risentite. E quest’aura di scandalo non è stata ininfluente sulla fama della sua opera.
Quasi fosse lo scandalo una componente ineliminabile dell’attualità letteraria francese, l’altro campione della narrativa d’Oltralpe, Michel Houellebecq, nato nel 1956 e di un solo anno più vecchio del collega, sembra divertirsi a scatenare polemiche fin da Le particelle elementari (Bompiani 1998), salutato come «il grande romanzo di fine millennio» che lo rese famoso anche in America offuscando persino la notorietà di Bret Easton Ellis. Aveva scritto fin lì poesie, libri critici e un altro interessante romanzo, Estensione del dominio della lotta (1994) dove c’era già tutto l’Houellebecq misogino, irritante, irriducibile, erotomane e disperato che avremmo conosciuto meglio nel tempo. Nuovo e scioccante il suo attacco alla società e ai suoi riti, il suo sarcasmo contro Dio e gli uomini. Un pessimismo radicale gli fa descrivere già allora l’umanità (con straordinaria preveggenza) come «infelice e travagliata», in un mondo dove sono scomparsi quasi completamente «i sentimenti d’amore, di tenerezza e di umana fratellanza» sostituiti da «indifferenza e crudeltà». Incandescenti polemiche s’accendono a ogni intervista per il lancio di un nuovo libro in un crescendo che arriva, dopo Piattaforma (2001), romanzo sul turismo sessuale come grande consolazione del maschio occidentale tartassato da revanchismi femministi, in cui un attentato di matrice islamica distrugge con la protagonista femminile, dea del sesso e grande amore del protagonista, ogni sua voglia di vivere. E Houellebecq, commentando il proprio libro, arriva a dire con l’imprudenza che lo caratterizza: «La religione più stupida è l’Islam, la lettura del Corano lascia prostrati». Ma è con Sottomissione del 2015 che si caccia davvero nei guai e preferisce lasciare Parigi e isolarsi in un posto segreto per sfuggire possibili vendette (proprio nel giorno dell’uscita del libro c’era stato l’attentato al giornale satirico Charlie Hebdo, il 7 gennaio, che causò venti morti). Anche se quel romanzo, parlando di una tranquilla affermazione della politica e religione musulmane in Francia, è un’accusa, ancora una volta, alla società occidentale sbrindellata e arresa, piuttosto che all’Islam. A partire dal libro successivo, Serotonina (2019, pubblicato da La nave di Teseo, suo nuovo editore italiano) la poetica dello scrittore si ripiega intorno a una crescente depressione individuale, aggravata dalle sorti preoccupanti di un’Occidente in irreversibile declino. Anche l’amore e il sesso sembrano non essere più le grandi risorse del maschio invecchiato. Fino al recente Annientare dove Houellebecq sembra perdere la bussola e passa dal raccontare uomini d’affari, con le loro «zoccole» e «puttane», a complicatissimi sabotaggi politici in rete, alla decadenza della vecchiaia e altri orrori, come suicidi e malattie atroci, in ottocento pagine al limite del sopportabile e dell’incoerenza che però riescono miracolosamente a non perdere la capacità di tenere avvinti i lettori, coccolarli, inorridirli, accarezzarli, straziarli.
Non sappiamo quali vicissitudini stiano accompagnando la sua vita, mentre Carrère di se stesso sembra raccontarci tutto spudoratamente, ma quel che incuriosisce di più, forse, è il rapporto che hanno fra loro questi due campioni delle lettere francesi, così diversi e diversamente rappresentativi dell’oggi. «Mi proteggo da Houellebecq» ha scritto Carrère, pur proclamandosene lettore e ammiratore – nonché invidioso della sua popolarità planetaria – nel libro collettivo dedicato al collega, Cahier (Nave di Teseo 2019). Prende le distanze, Carrère, soprattutto dalla visione nera del collega. «I libri di Houellebecq, in fondo, non mi fanno bene. Mi ispirano cattivi sentimenti – nei riguardi di me stesso, nei riguardi della vita…» E poi, dice ancora, Houellebecq ha la presunzione di «dire la verità» e per questo scrive in terza persona, mentre a lui è preclusa, lui non può che vedere le cose in soggettiva ed esprimersi in prima persona. E Houellebecq per parte sua ricambia la cortesia in un analogo volume dedicato a Emmanuel Carrère, Faire effraction dans le réel (Pol), in cui lo separa nettamente dalla «schiera abbastanza penosa di mediocri» degli altri scrittori francesi contemporanei (di cui fa pure i nomi) e confessa di essersi profondamente commosso per come affronta il problema del dolore e del male.
Ma questi due re non sono soli a occupare la scena. C’è una regina, appena più giovane di loro (è del 1959), rappresentata come autrice teatrale dai più grandi interpreti in tutto il mondo, abbondantemente tradotta per la sua narrativa anche da noi (Bompiani e, ora, Adelphi). È Yasmina Reza, che il cinema ha avvicinato a un pubblico più popolare con il film di Roman Polanski tratto da una sua appuntita pièce, Il dio del massacro. E particolarmente appuntito, vicino a una visione catastrofica della nostra storia che potrebbe rimandare a Houellebecq, ma con più contenuta e spietata consapevolezza, è anche l’ultimo romanzo di Reza, Serge (2021), in cui centrale è la visita ad Auschwitz che fa un gruppo familiare di origini ebraiche. Un viaggio che diventa dolorosa metafora dell’insignificanza e superficialità dei nostri giorni in cui anche la più grande delle colpe umane si trasforma in spettacolo, in affollato giro turistico. «Stanotte vedo chiaramente il nostro scarso peso, il nostro essere un nulla» dice a un certo punto un personaggio. Ma Reza andrebbe citata dall’inizio alla fine per il suo sguardo senza sconti su uomini e donne, per il senso della letteratura che scorre nelle sue pagine come nelle vene il sangue («…uno scrittore, vale a dire qualcuno che cerca di salvarsi con le sue sole forze» dice in Adam Haberberg, romanzo del 2003), per la capacità di rinnovarsi e cercare nuove vie espressive. Come quando ha seguito la campagna elettorale di Nicolas Sarkozy ricavandone l’indimenticabile ritratto di L’alba la sera o la notte (2007) con sconfortanti riflessioni sul fare politica, o quando nei bellissimi racconti Felici i felici (2013) conclude: «Perfino la vita, a lungo andare, è un valore insulso».
È una convinta lettrice di Houellebecq, Reza, al quale riconosce di «aver visto arrivare la disumanità del mondo». Che sia lei, alla fine, la più brava? E senza bisogno di esibirsi dentro nuvole polemiche o imbarazzanti pubbliche confessioni. Solo descrivendo l’umano: «Anche tu avanzi negli anni, esattamente come tutti quelli che conosci, e in qualche modo mi sono sentita parte di questa folla in viaggio, mano nella mano, che avanza negli anni verso qualcosa di ignoto» (Babilonia, 2016).