Lo stato dell’arte letteraria. conversazione con Marcello Fois (L’Espresso, 4/9/22)
Esiste una forma particolare di bilinguismo che è il rapporto non fra due lingue diverse, parlate in paesi diversi, ma fra un dialetto e la lingua nazionale. E quando è uno scrittore a essere bilingue in questo senso, le cose si complicano parecchio. È il caso di Marcello Fois che dedica al tema il nuovo libro, La mia Babele, edito in questi giorni da Solferino. Un racconto ricchissimo che riesce a essere autobiografia, saggio, approfondimento sentimentale sulle proprie radici e l’inevitabile distacco (anche linguistico per Fois), riflessione sulla letteratura e l’editoria, relazione complicata e quasi intima con i traduttori delle tante lingue del mondo in cui la sua opera è stata proposta. «Credo che questo tipo di rapporto molto privato con i miei traduttori derivi proprio dal fatto che sono sempre stato inevitabilmente traduttore di me stesso. E l’idea del libro all’inizio era questa: capire il legame fra il me traduttore di se stesso – che è la storia del mio essere scrittore – e il me tradotto in altre lingue. Come spesso accade, poi la struttura si è allargata a comprendere anche altro».
Ed è l’amalgama fra idea iniziale e il molto altro il fascino particolare di questo libro. Dal bambino Marcello, nato a Nuoro il 20 gennaio del 1960, dall’infanzia incantata in Barbagia, alla strenua lotta per apprendere “l’altra” lingua, al distacco per andare a studiare all’università di Bologna, alla difficile decisione di restarci a vivere – che da genitori e paesani è sentito come un tradimento – per mettere su famiglia in quell’ “altrove”. E intanto la consapevolezza di voler diventare scrittore, anzi di essere uno scrittore proprio partendo dal personale rapporto con la lingua.
Mi pare – gli dico – che fra le righe de La mia Babele corra sempre questo sottotesto: la profonda consapevolezza di una differenza, quella fra essere e voler essere, fra serietà e dilettantismo… «Sai, nessuno oggi sembra aver voglia di fare la differenza fra chi pubblica e chi scrive. Noi siamo cresciuti fra gente che ti obbligava a lasciare a casa il dilettante, mentre adesso si mette il dilettante addirittura al governo. È l’epoca di un qualunquismo generico, trionfa l’idea che importante sia l’università della vita, non lo studio e la competenza. Insomma, lo avevano già annunciato Fruttero e Lucentini: il trionfo del cretino…»
Si sta infervorando, è un tipo polemico Marcello, e se ci mettiamo a parlare di politica, ci allontaniamo dal libro e dal ragionamento che stavamo affrontando sullo stato attuale della letteratura. «Allora ti parlo della mia inquietudine. Se penso a un me che si fosse trovato a esordire oggi, penso che nessuno mi avrebbe pubblicato».
Effettivamente Fois può essere considerato uno scrittore “difficile”, per i tempi che corrono difficilissimo, ma è solo complesso come è l’arte più interessante, quella che devi un po’ faticare per capirla nel suo senso profondo, quella che ti costringe a una ricerca interiore, a una scoperta personale, a un’emozione. Però – gli faccio notare – persino i tuoi primi libri, Picta che vinse il Calvino, e Ferro Recente, sono stati ristampati… Certo, sulla base di un profilo di scrittore già consolidato…
«Appunto. Oggi, ne sono convinto, nessuno avrebbe corso il rischio di pubblicarli per primo. E non lo dico in termini snobistici, ma con la pena di chi osserva la rottura del contratto fra lettori ed editori. Le scelte editoriali, lo vediamo tutti i giorni, si orientano su ciò che è ritenuto “sicuro”: le possibilità di vendita, il gusto di lettori non-lettori. Nessun rischio, nessuna riflessione sul bello, sul nuovo». E in questa linea di pensiero s’inserisce la recente polemica a proposito dello Strega, fatta proprio sulle pagine di questo giornale ai primi di luglio in cui Fois sosteneva fra l’altro: «il Premio Strega ormai offre una cassa di risonanza notevole solo ai libri che già funzionano… non è più in grado di determinare un’alternativa all’attuale, generare un Pantheon, consacrare una carriera letteraria».
C’è un altro punto de La mia Babele che mi ha colpito, il rapporto nutriente, determinante e spinosissimo di Marcello con un grande Maestro, Ezio Raimondi, all’università di Bologna nei primi anni ’80, «Una specie di san Girolamo in un antro del sapere». Un antico detto zen dice: Quando l’allievo è pronto, il Maestro appare. Che succede oggi? I maestri non esistono più, perché nessuno è all’altezza di esserlo? O perché nessuno li cerca, nessuno è pronto per averne uno?
«La seconda che hai detto. Formarsi è faticoso. Ottenere la tesi da Raimondi sembrava un’impresa impossibile. Sono stato sfrontato e testardo, ho accettato di essere messo alla prova. Mi sono piegato alle sue indicazioni, diciamo pure imposizioni. E alla fine ce l’ho fatta: sono diventato un suo allievo, ho avuto la tesi, mi sono laureato con lui. Ecco, non so oggi quanti possano capire quel mio entusiasmo in un paese in cui non c’è vero dibattito, né culturale né politico. Come fai a educare un lettore che non sa leggere, che non sa distinguere, a cui fra l’altro vengono proposti scrittori che non sanno niente della scrittura, perché loro stessi non sanno leggere? A volte non sanno proprio l’italiano».
E non perché si esprimono in dialetto, vorrei aggiungere per tornare al cuore del libro. Ma invece l’argomento è troppo importante per lasciarlo cadere, e allora domando: Hai idea di come si potrebbe fare per creare i lettori che vorremmo e che sono sempre meno, malgrado gli affollamenti ai festival e le scalate alle classifiche?
«Un’idea ce l’ho, sì. Perché la buona letteratura esiste ancora e non va lasciata senza ascolto. I buoni lettori si educano a scuola. In una scuola seria, non quella in cui non è più chiaro il confine fra formazione e intrattenimento. [Fois da giovane è stato anche insegnante precario. “Precarissimo”, dice]. E guarda che spesso non sono i ragazzi i primi a non voler faticare. Ma i loro genitori, cui preme soprattutto salvare la settimana bianca. Investire sull’istruzione, sull’autorevolezza della scuola, salverebbe il pil del paese. Sarebbe fondamentale sottrarre la scuola a questa apparente democrazia in cui spadroneggiano i genitori. Guarda caso oggi i primi della classe sono gli extracomunitari, che sanno sulla propria pelle quanto sia importante imparare».
Nell’emozionante finale del libro, Fois dice che Boccaccio fa «sentire l’ombra dei boschi». Ecco cos’è un grande scrittore: uno che ti fa sentire, vedere l’ombra delle cose. E conclude: «Saper descrivere “l’ombra dei boschi” è esattamente quella fiammella che ti rende comprensibile in contrade dove si parlano lingue lontanissime dalla tua. Non è l’idioma dunque. È “l’ombra” che conta». Tolstoj resta Tolstoj anche in pessime traduzioni, insomma, grazie a quell’ombra, perché è l’emozione di una storia, che ti resta dentro e ti fa comprendere la grandezza di un autore.
Ho ancora un’ultima domanda: Non è contraddittorio per uno scrittore che la pensa così, insegnare in una scuola di scrittura? Quella faccenda dell’ombra mica la si può insegnare…
«Ah, infatti, hai ragione. Per questo io cerco di insegnare a leggere. Ce n’è urgente bisogno».