Vite mie (Il Foglio, 11/11/22)
«Nella nostra famiglia i legami di sangue non sono decisivi. Di sei che siamo in casa, nessuno è nato dagli stessi genitori» così si racconta e racconta il suo ruolo di padre di vari figli – non solo suoi (biologicamente), ma suoi a tutti gli effetti di relazione e di cura – Claudio Prizio, un uomo ancora giovane, sui 45 o giù di lì. Lo vediamo all’inizio di Vite mie, di Yari Selvetella (Mondadori, pp. 250), preparare la colazione alla numerosa famiglia. Riempie la caffettiera, tosta il pancarré, mette in tavola biscotti vari e una merendina alla carota per la più piccola, Micol, un attimo prima che il giorno esploda e in cucina compaiano tutti. L’allegra baraonda delle famiglie numerose. Proprio tutti no, manca sempre qualcuno. Manca G, la madre di tre figli su quattro, con cui Claudio ha prodotto solo uno dei tre maschi. Gli altri, G li ha fatti con due uomini diversi, prima di incontrare Claudio e poi, incontrato Claudio, si sono messi a vivere tutti insieme, perché pure Carlo (il più grande, quasi laureato in astrofisica) e Tiziano che all’università ci è sbarcato da poco, hanno sempre preferito vivere con Claudio che con i loro padri separati. Anche perché con Claudio stava la madre, poco materna, ma molto amata, G, che però non c’è più. Non c’è proprio più, da nessuna parte, perché è morta. E a Claudio è toccato dire ai figli, ancora poco più che bambini, la verità della malattia e della morte, la morte della madre. E questo, deve aver contribuito a saldare un legame fortissimo di appartenenza, a uno stesso dolore, a una stessa famiglia. Agata (la nuova compagna di Claudio) e Micol, sono venute dopo. Sono il trionfo della vita, sono il destino che si afferma come salvezza, continuità, superamento. Eppure non basta.
Claudio è sicuramente capace di amare. Ma gli viene un dubbio in apparenza assurdo: di non saperlo fare, di non saperlo fare più. Si chiama senso di colpa, e colpisce quando meno te lo aspetti, quando dovresti aver superato il peggio, quando credi di aver detto di sì non solo alla sopravvivenza, ma alla felicità. Una nuova compagna, che è una vera compagna, un altro figlio che per giunta è una femmina e così può diventare la mascotte di tutti. Perché la vecchia ferita si riapre proprio adesso? Quanto dura l’elaborazione del lutto? Quanto tempo ti concedono gli altri per venirne fuori? Quando puoi dire a te stesso “ne sono fuori”? Mai probabilmente. Oppure un giorno, riunendo in uno zaino un mucchietto di ricordi, e facendoti guidare da un fantasma che non ha mai smesso di esserci – nei sogni come nei gesti e nei pensieri subito respinti o persino accolti con dolcezza qualche volta – un giorno questo Claudio, che sei anche tu che leggi e che ti tieni stretto un tuo personale lutto o tutti i tuoi lutti, prende il motorino e va. Va in giro per Roma, quella bellissima del centro e quella diversa, multiforme delle periferie. E abbandona uno a uno quei ricordi, quegli oggetti, quelle fotografie. Per ogni cosa c’è un posto. È davvero liberatorio questo? Naturalmente no. È un’illusione come un’altra.
Come quella di poter davvero proteggere le proprie creature, quelle che amiamo più di tutte le altre al mondo. Da qui il senso di sconfitta, anche di fronte all’eccezionalità di una vita, o di più vite, ammirevoli e riuscite.
Insomma non è facile parlare di questo libro senza trama, perché la trama è quella indescrivibile della complicazione di vivere, libro per altro sorvegliatissimo, coraggioso nel non offrire sbocchi consolatori né soluzioni. Un libro – cosa sempre più rara – che ha le stigmate della necessità. Per chi lo ha scritto e quindi, inevitabilmente, per chi lo legge.