L’immaginazione 334 (marzo-aprile ‘23)
«Verrà mai il giorno in cui noi tutti, tedeschi, ciechi, francesi, russi, inglesi, potremo vivere fianco a fianco senza farci del male?… Cadranno mai le frontiere tra i Paesi, così come dovrebbero cadere nei rapporti tra uomo e uomo?» si chiedeva ancora ignara del suo terribile destino Milena Jesenská, la giornalista praghese diventata nota come grande amore di Kafka (malamata come tutte le donne di cui lo scrittore praghese s’innamorava) e morta nel lager di Ravensbrük il 17 maggio 1944. Il valore di Milena va ben al di là dei sentimenti che ha suscitato. Era «dotata di una vitalità straripante, di un coraggio al limite dell’incoscienza e di un’immaginazione famelica»: così la descrive Marina Valensise nel suo Sul baratro (Neri Pozza, 205 pagine, 19 euro), un libro che fa venire i brividi perché riunisce le vite di tanti artisti e scrittori di paesi diversi nel momento in cui l’abisso si è aperto davanti ai loro occhi allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Ed è inevitabile paragonare esistenze e reazioni: da chi sottovaluta il rischio a chi fugge ancor prima di sentirsi direttamente minacciato, da chi si isola a chi cerca di mettere in salvo se stesso e gli amici. Come è inevitabile, nei nostri tempi di guerre non troppo lontane, fare i conti con la paura serpeggiante di potersi ritrovare in frangenti, se non identici (perché l’avvento del nazismo col suo progetto di sterminio totale di un intero popolo resta qualcosa di ineguagliabile) comunque fortemente minacciosi. Marina Valensise ci fa incontrare a Vienna il pacifista Stefan Zweig e il comunista Hermann Broch, Sigmund Freud che si trasferisce a Londra appena in tempo, il 5 giugno del 1938, mentre Robert Musil scappa a Zurigo e Franz Werfel, che ha sposato Alma Mahler, vaga con lei da Parigi alla Provenza, da Capri ad Amsterdam fino a trovare rifugio, come tanti, negli Stati Uniti. La scelta dei destini da narrare che fa l’autrice è personale. Nel suo racconto c’è Tomasi di Lampedusa, c’è Alberto Moravia e poi Osip Mandel’štam e Arturo Toscanini («ho vergogna di appartenere al genere umano» è una sua celebre frase) e tantissimi altri. Quasi tutti uomini, curiosamente. Non ci sono, per dire, Hannah Arendt, anche lei costretta dopo una sua personale diaspora europea a riparare in America, e Etty Hillesum, vittima ormai iconica dei campi tedeschi.
Ma è vero che proprio queste due donne meravigliose sono state molto raccontate nel loro rapporto col nazismo. E anzi, alla seconda, ha dedicato il suo nuovo libro, uscito in gennaio, Elisabetta Rasy (Dio ci vuole felici, pubblicato da HarperCollins, 160 pagine, 18 euro), che è un ritratto di Etty, ma anche dell’autrice, in un conturbante gioco di rispecchiamenti. Rasy racconta Hillesum e insieme insegue un sottotesto, che qui e là affiora, sulla domanda delle domande: perché si scrive? Rintraccia una qualche risposta nel voler essere di Etty «una ragazza inedita», ragiona sullo scrivere diari che è «in fondo la duplicità di ogni scrittore […]: da un lato scrive per sé, per un proprio profondo e oscuro piacere, o un’altrettanta oscura necessità di travasare la vita in parole, dall’altra non può non dirigersi a un lettore, un lettore sconosciuto che è il grande Altro, di cui tutti fatalmente cerchiamo l’ascolto». E così si scrive anche in «tempi scatenati» come quelli in cui visse Hillesum. E si lascia la traccia di un amore (quello suo per l’originale “maestro” Julius Spier che la graffia come «un ago appuntito»), di una giovanile perplessità o paura («la mia vita è tutta sbagliata» oppure: «vorrei essere solo bella e stupida»), di una goffaggine, come il fastidio per i seni prosperosi che vorrebbe minuscoli («gravano come pesanti chicchi d’uva nelle mani di un uomo»), di un pensiero altissimo, struggente e «scandaloso» come lo definisce giustamente una complice Rasy («Dio non è responsabile verso di noi. Siamo noi a esserlo verso di lui»). Elisabetta Rasy è complice, sì, del suo personaggio che l’ha affascinata fin dalla giovinezza, quando ne lesse il Diario uscito da Adelphi nel 1985. E inevitabilmente mette in relazione quell’antica lettura con momenti della propria vita e insieme paragona Etty ad altre figure femminili che l’hanno accesa. Figure letterarie, come quella di Micol, nel Giardino dei Finzi-Contini; o di una Katherine Mansfield che del dolore diceva: «È necessario sottomettersi. Non opporre resistenza»; o delle altre grandi spirituali, Simone Weil e Edith Stein. Sono state, tutte, anche per me, passioni imprescindibili e, al di là dei loro tragici destini, hanno indicato una strada: di fedeltà a se stesse, di peculiarità femminile, di stravaganza, di coraggio.