Che cos’è che fa casa (IlFoglio, 25 nov.’23)

Che cos’è che fa casa (IlFoglio, 25 nov.’23)

Il latino aveva due modi per designare il concetto dell’abitare, casa era il luogo dei poveri, poco più che una capanna, mentre nella domus vivevano i ricchi. Se abbiamo scelto nel tempo la prima parola per designare in modo generico il posto dove stiamo, dove conserviamo gli oggetti più cari, è forse per il suo suono semplice e perché basta cambiare una sola vocale per passare dalle case alle cose che ci teniamo dentro. Cose che, in definitiva, sono la nostra autobiografia. Così almeno vengono interpretate in un libro piuttosto straordinario appena uscito da Marsilio e scritto da un architetto veneziano, Marino Folin, Inventario. Le cose e la casa. Arriva infatti il momento in cui l’amore per l’accumulo, «tra le meraviglie di una Wunderkammer e le buone cose di pessimo gusto», chiede di farsi catalogo, di oggetti come di vita, e lo spostamento nello spazio di una poltroncina Kohn, o forse Thonet, rivela ragioni non unicamente estetiche. Anzi: si è provvidenzialmente sostituita al divano dove, col passare degli anni lui «poteva sì sdraiarsi comodamente, ma dal quale faceva una certa fatica a rialzarsi». E ora è stata messa in una «posizione perfetta per leggere un libro o ascoltare musica con le gambe allungate, mentre dalla finestra aperta entra una leggera brezza».

E siccome libro chiama libro e casa chiama casa, ecco La casa di tutti di Antonella Agnoli (Laterza) la cui professione possiamo riassumere così: consulente bibliotecaria. Ma è riduttivo per una che le biblioteche le ha nel sangue e aiuta il mondo a pensarle e rinnovarle. Anche il suo testo è un catalogo, di biblioteche e di possibilità di abitarle, e si potrebbe riassumere nello slogan: «ovunque ci sia una biblioteca io sono a casa». In tempi di guerre vicine che ci rimandano scene di cieli percorsi da lampi e da bombe che precipitano sulle abitazioni, gli ospedali, le scuole, lasciando solo cumuli di rovine, il suo libro, come quello di Folin, diventa una specie di monito a tenersi stretto il privilegio della pace ma senza mai dimenticare quanto anche le mura più spesse siano fragili.

Una scena dal docufilm Un altro domani

È passato qualche sera fa in tv, su La7, il bellissimo documentario Un altro domani di Silvio Soldini e Cristina Mainardi, che riceverà l’Ambrogino d’Oro a Milano il 7 dicembre. Colpisce l’insistenza di alcune immagini, accompagnate dalla secca musica di Mauro Pagani, in cui appaiano soltanto palazzi cittadini e tante finestre, spesso avvolte dal buio della notte, ma con la luce dentro accesa. Danno – ancora una volta – un senso di calma, di protezione. Il senso di famiglie riunite all’ora di cena. Gente che si racconta cosa ha fatto durante la giornata, e poi ognuno nella sua stanza, a studiare, dormire, fare l’amore, in mezzo ai propri mobili e oggetti amati, rassicuranti. Ma tutto il resto del documentario dice un’altra storia, di sopraffazione e di violenza degli uomini sulle donne, spesso proprio dietro quelle finestre innocenti, e allora quelle stesse case diventano gabbie, spesso mortali. Come non ci fosse più al mondo la possibilità di una tregua, di un rifugio al male prodotto dagli uomini (e uso la parola non in senso generico, ma volutamente maschile). Come se non sapessimo quanto dovremmo tutti deporre le armi e seguire l’insegnamento di un eroe lontano come Antonio Gramsci (ricordato da Agnoli) che pure non ignorava la necessità della lotta: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». Dentro e fuori le nostre comode case.

 

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