Monache ribelli (IlFoglio, 19/4/24)
Tanti anni fa mi sentivo attratta dai destini delle monache, mi sembravano controcorrente. Avevo fatto un interessante reportage fra le eremite, solitarie o in gruppo, ed ero vicina a una comunità di ex suore brasiliane, fuggite dalla dittatura dei Gorillas e quindi radiate dall’ordine, che avevano però ricostituito in Italia un’associazione religiosa indipendente ed erano dedite a lavori socialmente utili. Le seguivo in certi ritiri ad Assisi e gli incontri con loro mi sembravano momenti di pace e di grande libertà femminile. Donne di varie età, intelligenti, combattive, che avevano rinunciato liberamente a sesso e famiglia e non si sottraevano a confronti su temi disparati, ma sempre centrate in una fede incrollabile nella Bontà, più che in divinità esterne agli esseri. Poi quelle con cui avevo una maggiore frequentazione sono morte e ora le altre non le sento più, se non per scambi di auguri.
Questo per dire che il libro di Brunella Schisa, Il velo strappato. Tormenti di una monaca napoletana (HarperCollins), mi ha bruscamente destata dal mio sogno conventuale e riportata a una realtà di soprusi che tendevo a rimuovere: una delle tante linee – quella di destini femminili costretti alla clausura – che segna dolorosamente la storia delle donne. E se la vicenda di Enrichetta Caracciolo di Forino, monacata a diciannove anni nel 1840, che ci racconta Schisa, è quella vincente di una ribelle, una combattente, una femminista ante litteram che l’ebbe vinta lei contro una madre insensibile e un potere maschile naturalmente persecutorio, seguirne le tappe fornisce la chiave per capire dall’interno cosa deve essere stato il convento per tante altre, senza nemmeno il riscatto di diventare la monaca di Monza immortalata dal Manzoni: essere sepolte vive, per sempre e senza possibilità di opporsi, di far ascoltare la propria voce, la propria sorte.
Brunella Schisa è bravissima nella rigorosa ricostruzione storica e sa usare l’arma del romanzo per entrare nelle pieghe dell’animo di Enrichetta facendone un grande personaggio. E parlo di arma, perché ogni passo, ogni ribellione, ogni lotta, ogni lettera disperata alla madre o agli onnipotenti che la tengono in pugno, sono pietre lanciate per liberare non solo se stessa, ma un’intera categoria oppressa. E per illuminare la posterità, anche inconsapevolmente, ma non tanto, su come sono andate le cose dietro quelle pareti invalicabili. Perché poi, come succede spesso alle vittime, invece di coalizzarsi contro il nemico, diventano ostili l’una all’altra. Ed è forse la parte più interessante del romanzo questo insinuarsi della narrazione nei rapporti che Enrichetta intrattiene con la terribile madre (che si pentirà troppo tardi) e con le “colleghe” di un’oppressione condivisa. Madre che non ha scrupoli a sacrificare la figlia per motivi economici e per una chiara viltà di carattere; colleghe che non hanno la sua determinazione e la sua vasta cultura. Infatti, oltre al coraggio, è la cultura che salva Enrichetta, bagaglio disponibile a pochissime. Enrichetta legge, libri e giornali. Sa quello che si prepara intorno, a Napoli e fuori. Sa di Garibaldi e che è in arrivo la Terza Guerra d’Indipendenza. In breve: sa da che parte stare, diviene una patriota. E quando finalmente riuscirà a liberarsi del convento, si sposa anche. Soprattutto scrive, per le donne e contro i soprusi. Scrive in particolare quei Misteri del chiostro napoletano che, pubblicato nel 1864, sarà un bestseller. E ai Misteri si è inevitabilmente abbeverata l’autrice, per ricrearla nel suo romanzo, ma con l’inventiva e la voglia di saperne di più su quel nome femminile, Enrichetta, da cui era stata perseguitata da piccola, in famiglia, nella sua Napoli, come da un esempio negativo. Ed ecco qua: ora è riuscita a riscattarla completamente.