Libri dell’estate conclusa (Immaginazione 343, ag-sett 24)
Napoli e il suo mito mi ha sempre messo in difficoltà. È una città che sento minacciosa, per il caos che subito ti avvolge, per la lingua che può essere dolce e sprezzante insieme, perché da piccola un gruppetto di zie tremendamente napoletane sono riuscite a guastarmi ogni Natale discutendo sull’esatta consistenza di un ragù (ragù napoletano ovviamente) o la perfetta cottura di una torta. Sembrava dovessero sbranarsi, poi miracolosamente finiva tutto a tarallucci e vino come si dice, ma intanto per me la festa era rovinata. Questa estate però ho letto un libro che mi ha fatto fare pace con la città (almeno fino ala prossima volta, dubito infatti che la mia pace con Napoli possa mai essere definitiva). È Il sole non bagna Napoli di Antonella Cilento (BEE,180 pagine, 17 euro), un libro denso, festoso, informatissimo, pieno d’amore per la città senza tacerne i molti difetti e pieno anche di riferimenti ad altri narratori che di Napoli hanno scritto fino a comporre una piacevolissima enciclopedia. «Lontano dalle facili cartoline che troverete al cinema, in un serial o dentro romanzetti commerciali, Napoli è un lento viaggio di profondità e di vette», scrive Cilento nella sua lingua che sempre m’incanta perché riesce essere barocca e minimalista insieme. E non mi chiedete come faccia, è un segreto solo suo. Basterebbe l’incipit, dove ci rivela che scriverà questo libro su una città piena di luce nel buio totale, perché mentre si accingeva a cominciarlo le è capitato un guaio agli occhi che le ha tolto temporaneamente la vista, da qui il titolo. La malattia è poi evoluta per il meglio e così la scrittura, sempre pensando che «Napoli è un affaccio: c’è sempre un balcone da cui guardare la città», Cilento è riuscita tanto più profondamente a “guardarla” quanto più veniva meno la luce. Del resto non è la letteratura comunque memoria? Per quel che mi riguarda, giuro che inforcherò potenti occhiali da sole, e me ne andrò in giro a fare la turista con questo libro in mano imitando la sua autrice anche nell’ombra. Chissà che il non essere abbagliata, mi restituirà una Napoli più domestica, dalla bellezza «molto oltraggiata», ma «dura a distruggersi».
Un altro spunto per vagabondare, sia pure solo con la mente, è stato nell’estate Virginia Woolf. Sono grata all’editoria che non smette di riproporla e agli scrittori, critici e traduttori che si occupano indefessamente di lei. Mentre, per esempio, la traduttrice Giovanna Granato è sempre al lavoro per Bompiani sui cinque volumi degli imprescindibili diari (aspettiamo il terzo a inizio 2025), la Feltrinelli ha riunito adesso in un unico libro, per la cura di Nadia Fusini, due deliziosi testi autobiografici, Uno schizzo del passato e Sono una snob? (200 pagine, 11 euro). Mentre Neri Pozza ha il merito di aver pubblicato l’anno scorso il necessario Nessuna come lei di Sara Simone (400 pagine, 22 euro) sull’altalenante amicizia fra Woolf e Katherine Mansfield, due «che mettevano la letteratura al primo posto. E questa non era un’affinità come un’altra: era tutto».
Ma non finisce qui. All’inizio dell’estate è uscito da Bompiani uno di quei testi capaci di ricreare un’atmosfera, un gruppo, le loro inimitabili relazioni e un luogo diventato mitico: la casa di Charleston – nel sud dell’Inghilterra – di Vanessa Bell, la sorella pittrice di Woolf. Si tratta di Il giardino di Bloomsbury di Mario Fortunato. Ed eccoli rivivere, come fossero amici nostri, tutti quanti quei matti artisti e intellettuali che costituirono il celebre gruppo con i loro intrecci amorosi, la sessualità fluida, i grandiosi bisticci, i successi, le tragedie, la giovinezza, la vecchiaia, la morte. Fortunato si aggira anche lui in quel museo attivo, fin dal giovanissimo innamorato che era la prima volta che ci ha messo piede, in compagnia di un altro ragazzo come lui, all’autore e traduttore che è oggi e che li ha tutti studiati e capiti intimamente quei meravigliosi protagonisti di una stagione inimitabile. Ancora una volta il centro di questo libro è la memoria. Ci sono i ricordi dello stesso Mario e quelli di alcuni personaggi raccontati, e questo rende vivi i fantasmi, li restituisce alla loro unicità di esseri umani, ma insieme ne fa dei modelli, stampo di vite vissute anche da altri. Come quando, nelle intense pagine finali, Vanessa si appisola in poltrona e le sembra di riascoltare la voce di Virginia, morta suicida tanti anni prima nel fiume Ouse e sente la sua risata «annegata con lei». E rivede Roger Fry, e Lytton Strachey e Duncan Grant e Maynard Keynes e gli altri, scomparsi prima di lei e che furono Bloomsbury. E poi le cose, i volti si confondono. Perché anche la morte forse non è «che una fantasticheria».