Quindici anni per sempre (Il Foglio, 4/10/24)

Quindici anni per sempre (Il Foglio, 4/10/24)

Come si fa a crescere? Ad abbandonare l’adolescenza una volta per tutte senza però tradire quel che si è stati e che si vuole continuare a essere? Come si fa a sopportare l’idea di invecchiare? Come si fa, come si fa? E tu come hai fatto? Dimmi di te. Questo chiede Chiara Gamberale nel titolo e nel libro appena uscito da Einaudi StileLibero (210 pagine, !8 euro). “Ho ancora quindici anni, sempre quindici anni” ammette l’autrice che però comincia a riconoscere in questa sua insistenza adolescenziale qualcosa che non va, qualcosa addirittura di “marcio”. E allora indaga nella vita degli altri, quelli che sono stati giovanissimi insieme a lei, quelli che considerava a scuola, nelle amicizie, nei furibondi amori pietre miliari, fari nella nebbia. Come se la sono cavata negli anni? Che vita si sono costruiti intorno? Hanno un progetto, quello che a lei è sempre mancato e continua a mancare?

Perse di vista per tanto tempo, le sue “stelle polari” si riaffacciano piene di storie da raccontare che poi lei, l’autrice, riracconta al lettore coi suoi commenti, coi suoi ricordi. In una specie di tumulto della scrittura che ancora, e ancora e ancora, insegue il ritmo di un’inestinguibile giovinezza. Senza pace. Senza la pace che sostiene di voler trovare da qualche parte. È proprio questo tumulto la caratteristica narrativa di Chiara Gamberale. Che si confronti con un’ex fascinosissima rivale, ora saggia madre di un bambino disabile, o con chi ha trovato un senso entrando nella comunità dei focolarini, con un vecchio amore idealizzato o con un vecchio amore abbandonato, con il fantasma di un’amica del cuore suicida a diciassette anni…Chiara non viene a capo del suo assillo, perché in realtà non vuole venirne a capo. E non può: nessuno può insegnare a un altro come cavarsela rispetto ai grandi quesiti dell’esistere: perché vivo, perché devo morire…

Chiara Gamberale

Lei, di quel che sente come un problema, il non saper crescere – “ero riuscita perfino ad avere una figlia in circostanze adolescenziali”, dice a un certo punto – ha fatto una forza. La forza di una lingua che sa parlare a giovani e giovanissimi, perché non è solo una lingua con quel che contiene, è una disperazione, una rivolta che passa fra le righe scavalcando la barriera letteraria, arriva come la carezza o lo schiaffo di un interlocutore in carne e ossa che mette sul piatto, senza orpelli stilistici, la sua vita, i suoi assilli, le paure più profonde, gli errori commessi e l’incapacità di non continuare a commetterli.

E anche il lettore adulto ne viene contagiato. Se accetta il difficile confronto ne resta intenerito e commosso, gli si apre nella testa il suo personale giovanile tutto o niente con la vita. E finirà in modo inevitabile per rispecchiarsi nel personaggio che chiude il racconto e che sembra inventato ma non lo è, una specie di vecchio saggio o vecchio matto che Chiara incontra nel cimitero di Ventotene. È detto Nicola del cimitero, lo conoscono tutti nell’isola. Non si stacca dal suo grande amore che riposa in una tomba e sostiene che “c’è qualcosa fra il cancello della vita e quello della morte: ne ho la certezza”. Intanto da qualche parte si sente cantare Jovanotti, Baciami ancora… e Luis Miguel Besame, besame mucho como si fuera esta noche la última vez

Così pure Chiara raggiunge una certezza in più: che le storie d’amore sono “patologie elette a sistema”, ma intanto incassa proprio da Nicola-del-cimitero l’insegnamento che andava cercando: “Si lasci acchiappare dai suoi sogni, Chiara. Non smetta di credere in quello in cui ha sempre creduto”. Che male c’è dopotutto a restare degli eterni adolescenti? Che male c’è a giocare alla vita piuttosto che combatterne lo spreco? Tanto: non è tutto uno spreco sempre e comunque la vita, visto il suo inevitabile esito?

 

 

 

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