Mitologie familiari e verità dei fatti (ilFoglio 17/1/25)
In un vecchio diario definisco la nascita di mio figlio “la mia ciambella col buco”. Avevo trent’anni e intendevo dire che fin lì niente mi era riuscito meglio. La gravidanza era stata un periodo splendido. Non avevo disturbi e mi era cambiato in meglio il carattere, come in seguito solo certi psicofarmaci sono riusciti a fare. Le persone mi guardavano con tenerezza, mi fermavano per strada profetizzando: sarà una femmina! sarà un maschio! Gli amici si lanciavano in complimenti che non avevano mai osato farmi, liberi – spiegavano – di non essere fraintesi. Senza contare quanto sono caduta perdutamente innamorata di lui, di quel bambino nuovo nuovo appena uscito dalla mia pancia per cominciare a schiamazzare nel mondo. Nient’altro mi ha poi resa più felice di essere di sesso femminile. Avevo compiuto un miracolo, e la mia vita prendeva un senso, la mia esistenza era giustificata. Non per tutte la maternità è oasi e idillio. Tante si sentono male durante tutta la gravidanza e poi verso i figli sono piene di sensi di colpa. Si vedono brutte per via della pancia e dopo si vedono brutte per le conseguenze, smagliature, grinze, grasso superfluo difficile da mandar via, flussi incontrollati del sangue, montata lattea che non monta abbastanza o che non smette più di montare. Ritrovo tutte queste preoccupazioni nel nuovo romanzo di Nadia Terranova, Quello che so di te (Guanda) che in realtà gira intorno a un’altra ossessione: la figura di una bisnonna, finita per ben due volte in manicomio e madre di diversi figli, due femmine – o forse tre – e un solo maschio. Si chiama bizzarramente Venera e tormenta l’autrice in ripetuti sogni. La Mitologia familiare – così definisce giustamente Nadia le storie che si tramandano di generazione in generazione, racconta che Venera è diventata pazza quando prendendo posto sulle scalinate di un circo ha dovuto inseguire le figlie ribelli cadendo malamente e provocando la perdita della nascitura Giovanna, ancora chiusa nella sua pancia. Ma se ne dicono tante! La verità cambia nel tempo e ci sono altre versioni, misteriose coincidenze sapientemente intrecciate. Nadia, per esempio, si chiama così perché i genitori si sono ispirati a un libro di Breton uscito nel 1928, l’anno in cui Venera è stata internata…
L’assillo dell’autrice diventa incontenibile e coinvolgente: deve ricostruire la vera storia di Venera e della famiglia. Psicosi istero-nevrastenica, è stata la diagnosi che Terranova traduce musicalmente nel suo dialetto messinese scantàta, scattiàta, strèusa (spaventata, agitata, strana). E tutto diventa più umano. Perché adesso è chiaro, questa ricerca di Venera è ricerca di sé e diventare madre vuol dire anche mettersi a fuoco, conoscersi. E lasciarsi andare. Persino alla pazzia e al fallimento. Perché – Beckett ce l’ha insegnato una volta per tutte – il segreto non è cercare la perfezione (come madri, come scrittrici, come artiste) ma concedersi il lusso di fallire meglio o, come scrive bene Terranova “fallire in pace”. Fallire persino nella ricerca sfrenata della verità, risalendo ai documenti che negli ospedali dove è stata ricoverata quella bisnonna indecifrabile parlano di lei in modo che dovrebbe essere scientifico. Terranova ce ne mostra le prove fotografandoli, sottoponendoli al lettore. Ma a che serve? Erano proprio quelli i luoghi del suo personaggio? No, perché tutto è cambiato. E dove collocare, allora, la sua propria vita, sua figlia, il marito, l’apparente serenità dell’oggi? In quale rapporto col passato?
È un libro anche inquietante Quello che so di te perché ci mostra che non sappiamo mai niente, di noi stessi, degli altri, dei nostri sogni o incubi. Eppure mi sembra di aver capito che anche per Nadia Terranova, nella scrittura e nella vita, la maternità sia una ciambella riuscita, perfettamente rotonda intorno al vuoto dell’universo.