La cosa più interessante della vita è l’amore (ilFoglio, 11/4/25)
Nell’ultimo periodo della sua vita Raffaele La Capria, detto Duddù o Dudù, leggeva e rileggeva I fratelli Karamazov e altri libri di Dostoevskij, poiché pensava che l’epoca del romanzo fosse finita e tutte quelle definizioni di romanzo sulle copertine dei contemporanei fossero per la maggior parte un falso. «Perché lui pensava al romanzo come forma simbolica» spiega Elisabetta Rasy nel suo nuovo libro Perduto è questo mare (Rizzoli) “e dunque che scrivere un romanzo non vuol dire solo raccontare una storia, ma creare una rete in cui afferrare la realtà, e che un romanziere non è semplicemente un narratore di storie, e che a una storia non basta una trama o dei personaggi per essere un romanzo”.
Invece Perduto è questo mare, che deve il titolo proprio a La Capria – e precisamente al pellegrinaggio da lui narrato in Capri e non più Capri – è un romanzo, e un romanzo molto bello, sotto vari punti di vista. È infatti un’opera contemporanea nello scegliere sfacciatamente la forma autobiografica, ma evita di scadere nell’autofiction sempre un po’ scandalosa e pettegola, perché sa catturare la realtà e insieme ergersi a simbolo. Simbolo di tante cose: del complesso rapporto di una bambina, poi donna, con il padre, anzi con diversi padri; della perdita di una città, a sua volta simbolo di spensieratezza, infanzia, felicità, e poi distruzione e decadenza; del tempo, che inesorabile trascorre, lasciando cumuli di macerie. Il tempo che modifica lo spazio “e questa non è una formula scientifica ma una precisa cognizione dell’anima”. La città è Napoli e quel suo mare un tempo frequentabile dove la piccola Elisabetta scorrazzava mano nella mano con un papà affascinante e festoso, imparava a nuotare, guardava gli adulti giocare a carte, intrecciava le sue prime amicizie. Poi nel 1963 l’incanto si rompe. La madre lascia il marito diventato sciatto e incomprensibile, disordinato e perdigiorno. Da un momento all’altro fa la valigia e scappa a Roma portando la figlia adolescente con sé. C’è una frattura netta, carica di conseguenze nel destino che verrà, ma forse c’è anche salvezza.
Molto forte il leitmotiv del profetico film di Rosi, Le mani sulla città, che è del ’63 e dice lo scempio edilizio di Napoli. Passa e ripassa con diverse evocazioni fra le pagine del libro come una ferita dolorosissima e come un monito. E poi c’è la figura di Dudù, signorile, malinconica, dolcissima. Un altro padre? No, non proprio. Scrive Rasy: “La radice perduta, quella radice né sentimentale né folcloristica ma legata a una stagione mitica dell’esperienza, divenne l’anello più forte della catena della nostra amicizia”. Più amico, dunque, o fratello maggiore, qualcuno che come la protagonista ama la letteratura e ha sofferto la rovina dello stesso mare perduto, che “non era forse il paradiso, ma quasi”. E poi, quasi in sordina, lontano dalla laurea in Storia dell’Arte, un incontro inaspettato a piazza di Spagna, con il professore Cesare Brandi, non esattamente un padre neanche lui, ma quasi, perché era un Maestro, “non trasmetteva insegnamenti, era un insegnamento”. Parlano di tante cose, e alla fine la sorprende dicendo: “Ma ricordi: la cosa più interessante della vita è l’amore”. E risuona una domanda che La Capria le ha fatto fino alla morte: “Chi hai amato? Chi hai amato di più nella tua vita?”
Il lettore comune non se ne accorge, e non deve accorgersene, ma il lettore professionista non può non sentire a orecchio quanto ogni parola sia scelta e cesellata nel disegno complessivo con una cura appassionata. Non potrebbe insomma non essere che quella parola. È un altro modo, questo, che hanno gli scrittori per dare “forma simbolica” alle loro opere e insieme essere fedeli alla propria unica voce. E anche questo, direi, per chi ama la letteratura non è “il paradiso, ma quasi”.