L’ultimo Wenders (L’Immaginazione, novembre-dicembre 2015)
Ho letto con grande stupore alcune stroncature dell’ultimo film di Wim Wenders, il cui titolo italiano è Ritorno alla vita, mentre quello originale (che valeva la pena mantenere) suona: Every thing will be fine. Ho scritto «con grande stupore» e non è vero. Non mi stupisco più della lontananza che registro fra i miei giudizi e quelli della critica cinematografica più accreditata, spesso generosissima con modesti film italiani e feroce con stranieri che a mio parere meriterebbero ben altra attenzione. Tanto che mi sono chiesta se non ci sia dietro un patto segreto per sostenere il malmesso cinema di casa nostra. Non lo so. Io non sono un critico cinematografico e “leggo” i film un po’ come libri, libri pieni di immagini, però, che mi circondano da tutte le parti. Da Wenders mi sono sentita avvolta, scossa, commossa. Come ai vecchi tempi, quelli di Alice nelle città, Paris, Texas, Il cielo sopra Berlino, prima insomma del pur interessante, anche spesso bellissimo, periodo “documentario”.
In Every thing will be fine, a me sembra che Wenders abbia di nuovo maturato il bisogno profondo di dire qualcosa attraverso la fiction, e abbia curato ogni dettaglio in un modo oggi rarissimo di raccontare una storia, sia nei libri sia al cinema. E mi sembra che niente di quel che voleva dire sia andato perduto, pur nella sinteticità dei discorsi e in un intento paradigmatico che ora, ripensandoci, credo sia il motivo del risentimento che tanti critici hanno avuto verso di lui, verso questo film, forse inconsciamente. Non amiamo, oggi, chi ci vuole indicare una strada, chi capisce troppo e intende insegnarcelo. Qui Wenders ci vuole dire di lasciare la presa, di non aver paura di perdere il controllo delle cose, di infischiarcene dell’immagine che abbiamo di noi stessi e che vogliamo dare agli altri, per essere semplicemente quello che siamo col guazzabuglio complicato dei nostri sentimenti.
Tutto il film tende all’abbraccio finale che scioglie, almeno un poco, il blocco duro della paura, del senso di colpa, della perdita dell’innocenza. L’inizio è un paesaggio ghiacciato del Canada dove è andato a rintanarsi uno scrittore a corto di ispirazione. Tutto il film ci accompagna verso il disgelo, della stagione come del cuore. Lo scrittore è un giovane scrittore di oggi: bello, determinato, inquieto. Inquieto, non tormentato come sarebbe stato uno scrittore di altri tempi. L’inquietudine lo porterà persino a tentare un goffo suicidio («nemmeno nel suicidio sei serio» lo rimprovererà la compagna che è stata abbandonata). Un terribile incidente, di cui non è responsabile, ma tramite del destino – la morte di un bambino finito sotto le ruote della sua macchina con lo slittino – rimescola le carte della sua vita, lo conduce verso la scrittura di libri sempre più convincenti, verso la scelta di una nuova compagna più congeniale, verso un oscuro parallelismo con un altro destino, anzi due, quelli della madre e del fratello del bambino morto nell’impatto.
Il racconto procede nitido (nella fotografia) e pieno d’ombre pesanti (nel groviglio delle storie). La musica, splendida, accompagna il tutto con contenuta tenerezza. Lo scrittore diventa ricco e famoso e asseconda nelle scelte che fa, nella casa che si compra l’immagine di una persona ricca e famosa, una casa di vetro attraverso le cui finestre il fratello diventato grande del bambino morto può osservarlo e perseguitarlo. Un oscuro bisogno di vendetta, non tanto per il fratello, ma per la madre la cui vita si è spezzata, lo spinge a compiere gesti non meditati, ostili e fragili. Un senso di inesplicabile ingiustizia. Tutti i personaggi agiscono e sono agiti. Tutti sono colpevoli di qualcosa: la madre che leggeva un romanzo di Faulkner e si è dimenticata di richiamare i figli al calare del giorno, lo scrittore che comunque ha involontariamente ucciso, il ragazzo che non ha protetto il fratellino e, una volta cresciuto, imbratta la casa dello scrittore.
La vita scorre, la neve si scioglie, case vengono vendute, libri saranno scritti, qualcosa da qualche parte per qualcuno si smarrisce, per un altro si ricompone. Ma se c’è un senso, qualche volta, è nella capacità di non programmare, di lasciare che qualcosa sfugga al controllo e all’autoprotezione, per entrare in un incantato incontro con il prossimo, per stringersi nella forza di un abbraccio senza calcolo e senza meditazione. E probabilmente sopportandone poi le conseguenze. Ma queste Wenders, e con lui lo straordinario sceneggiatore Bjørn Olaf Johannessen, non ce le racconta.