Maestri e allievi (L’Immaginazione, n. 293, maggio-giugno ’16)
«Tutto è iniziato con una caduta in acqua»: così comincia il libro-culto Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut. In questo incipit, di una introduzione carica di suspense, si racconta di quando, nell’inverno del 1955, l’autore ventitrenne e l’amico Claude Chabrol, solo di due anni più vecchio, redattori dei Cahiers du Cinéma, andarono a intervistare Alfred Hitchcock e, per l’emozione, presi com’erano da un’accesa discussione, finirono insieme «con lo stesso passo» dentro una vasca gelata nel giardino degli Studi dove il Maestro stava lavorando. Hitch avrebbe poi detto nel tempo ai due giovani: «Penso a voi due ogni volta che vedo i cubetti di ghiaccio che si urtano in un bicchiere di whisky». E’ tutto così avvincente che sembra inventato, forse lo è. E tanto meglio. Perché mette subito in risalto la relazione profonda fra il cinquantenne re del thriller hollywoodiano e la futura stella della Nouvelle Vague, la loro comune passione per il plot sorprendente che, dietro una superficiale leggerezza, nasconde pericolose rivelazioni.
Ora un lungometraggio imperdibile (almeno per gli appassionati della materia) di Kent Jones, commediografo americano, dal titolo Hitchcock/Truffaut, scritto insieme al critico francese, e biografo di Truffaut, Serge Toubiana, racconta in immagini l’affettuoso rapporto fra i due grandi registi così come prese corpo nella lunga intervista di Il cinema secondo Hitchcock. Siccome non sono esattamente una cinéphile, a me il film è piaciuto molto, ma come piace a me il cinema, per quello che dentro ci trovo oltre il cinema. E qui ci ho trovato più di uno spunto per riflettere su quel genere di rapporto, ormai rarissimo, fra maestro e allievo, quando è l’allievo a scegliersi il maestro e anzi il primo non si sognava lontanamente di esserlo, visto che il secondo non sembrava aver bisogno di nessun maestro. Solo così questa delicatissima relazione è corretta, solo così il sistema di potere che potrebbe generare è completamente escluso.
Ai nostri giorni, che Hitchcock sia un genio, è scontato, ma non lo era, prima di tutto in Usa, ai suoi tempi. Fu proprio Truffaut, con la sua passione e la sua sensibilità, a rivelare al mondo quanto il cinema dovesse a Hitch, e non solo: lo rivelò probabilmente a Hitchcock stesso, che in alcune deliziose lettere che i due si scambiarono nutriva ancora dubbi sulla propria importanza artistica. In questo dovrebbe consistere l’amicizia: raccontarti attraverso gli occhi dell’altro la tua natura, rivelarti a te stesso. Ed è anche il principio della relazione maestro/allievo nel suo senso più alto. Il maestro non è soltanto qualcuno che ha qualcosa da insegnare, ma è un grumo di umanità che solo un certo allievo riesce a sciogliere e rendere fecondo. Quel tipo di allievo deve essere soprattutto appassionato. Poi generoso, poi coraggioso.
Tutto questo fu Truffaut per Hitch. Lo inseguì per anni per inchiodarlo a una sedia e intervistarlo, poi lo costrinse con le sue domande a riflettere e spiegare la sua arte. Poi altro tempo per rivedere, correggere, ampliare il materiale raccolto. Alla fine, inevitabilmente, il libro Il cinema secondo Hitchcock, divenne una sua opera al pari dei suoi film, perché – parlando di Hitchcock – Truffaut parlava di se stesso, almeno del se stesso che doveva molto all’opera dell’altro.
Ogni volta che rifletto sugli artisti delle generazioni che ci hanno preceduto, mi domando cosa si è interrotto – dopo di loro – nella trasmissione della cultura, perché tanta passione, generosità, coraggio si siano spente. Mi pare evidente che si siano spente. E’ come se non si riconoscesse più il valore dei Maestri, come potessimo tutti farne a meno, tutti figli di nessuno che cominciano da se stessi, tutti fratelli e sorelle senza padri. Mi sembra molto triste questo: questo disperato egocentrismo che moltiplica prodotti letterari, artistici, cinematografici, inutili, ripetitivi, sovrabbondanti, senza risonanza se non mediatica, e cancella la relazione di un’opera con l’altra, di una personalità creatrice con le altre, affini o distanti che siano. Sì, perché la mancanza di maestri come di allievi (è mancanza anche il fatto che tutti ormai s’improvvisano maestri e s’improvvisano allievi di chiunque, basta pensare al proliferare di Scuole di Scrittura autocertificantesi) è un sintomo di ulteriori persino più radicali mancanze. Mancanza di concentrazione e mancanza di prospettive, mancanza d’amore, mancanza di mancanza di calcolo.