Un’intervista di Riccardo Limongi sul mio “Grandi speranze” al Napoliteatrofestival in giugno (da http://www.teatro.org/rubriche/attesa_2010/)

Un’intervista di Riccardo Limongi sul mio “Grandi speranze” al Napoliteatrofestival in giugno (da http://www.teatro.org/rubriche/attesa_2010/)

Foto di P. Comegna

Una signora della scrittura scende per strada fra la gente in fila, entra nell’Attesa fra sguardi pazienti ed impazienti, fra l’indugio e quella breve sospensione del tempo che si vive in una fila a teatro come alle poste, ad una biglietteria come ad una fermata di metropolitana, ed inserisce in quello spazio i suoi personaggi come se fossero semplici appartenenti a quella stessa fila, crea qualche minuto di sovrapposizione della letteratura alla realtà tale che molti forse restano col dubbio che quei personaggi non siano tali, ma compartecipi della stessa Attesa.

Quella signora è Sandra Petrignani, madre napoletana e padre romano, una vita trascorsa ad affrontare ogni possibile genere letterario, autrice di Grandi speranze, una delle rappresentazioni a sorpresa che saranno “messe in scena” senza altra scena che la gente fra cui saranno amalgamati gli attori.

La incontriamo pochi giorni prima di questo esperimento del Teatro Festival, sentendoci quasi come in attesa dell’attesa, e proviamo a tracciare il percorso che l’ha portata ad immaginare la sua scena.

Quale rapporto ha con la scrittura drammaturgica, e come la colloca rispetto alla narrativa?

Mi piace molto e in qualche modo mi rilassa. Dal punto di vista della costruzione per me la narrativa equivale a un grossa architettura, mentre la scrittura drammaturgica richiede l’invenzione di un “interno”. Mi diverte anche molto. E mi costringe a un più diretto confronto con la realtà quotidiana.

Il senso dell’Attesa: quali potenzialità nasconde questa sensazione, e come l’affronta nella sua scrittura?

Ho legato l’idea al luogo che ho scelto: il foyer di un teatro, quel tempo morto che passa fra il nostro arrivo in teatro e l’inizio della rappresentazione. Nella mia pièce, per uno scherzo della vita, il tempo morto si trasforma in un tempo decisivo che mette il protagonista ai ferri corti col passato e con l’immediato futuro. Incontra il grande amore dei suoi vent’anni che, in un momento cruciale della sua giovinezza, l’aveva lasciato solo a scommettere sulla sua vocazione umanitaria prima condivisa. I due destini si confrontano di nuovo in quel foyer e fanno conti impossibili col presente sotto la minaccia di un terzo personaggio, la moglie di lui, inevitabilmente gelosa e ignara di cosa realmente stia accadendo. Il tutto sotto un’altra comune minaccia: l’attesa è breve e bisognerà decidere rapidamente perché lo spettacolo sta per cominciare.

Quale relazione pensa che sia possibile tracciare tra Napoli e l’Attesa?

A me Napoli dà l’impressione di una città dove nessuno aspetta niente. Da un lato vanno tutti tremendamente di fretta, dall’altro la gente si porta addosso una specie di rassegnazione al ritardo, all’ostacolo, all’imprevisto fastidioso. Attendere è una necessità e una maledizione di cui Napoli sembra non voler tener conto.

“Grandi Speranze” potrebbe ricordare una frase di Guido Gozzano – non amo che le rose che non colsi – : ferma il tempo nel momento in cui arriva la tentazione di riprendere i fili della propria vita nel punto in cui crediamo che ci sia stata la cesura determinante, quella alla quale imputare le nostre insoddisfazioni dell’oggi… cosa succede in quell’istante?

Succede lo scacco. Non tenere conto del presente è impraticabile. Il presente è l’unica realtà. E succede, sempre e comunque, che le grandi attese o speranze o illusioni della giovinezza non siano mantenute, in un modo o nell’altro, persino quando una vita benevola ci vizia facendoci vincere le nostre scommesse. Qualsiasi scelta facciamo, anche se si rivela giusta, ci lascia l’amaro di quel che non abbiamo scelto e un inesorabile, sardonico punto di domanda: cosa sarebbe stato di noi se avessimo percorso l’altra strada? Qui, poi, le cose si complicano perché i due ex innamorati avevano condiviso un grande sogno: partire insieme per Calcutta come volontari di Madre Teresa. Lei, che allora aveva rinunciato, può ancora illudersi di dare una svolta in quel senso alla sua vita. Lui, che è partito e tornato sconfitto, è molto più cauto.

Rispetto alla tentazione di tornare indietro, quanto conta invece il coraggio di ritrovarsi nella strada percorsa, di cogliere se stessi per come si è cambiati?

Non c’è alternativa. Indietro non si torna. Le sliding-doors della vita si sono aperte e richiuse una volta per tutte. La frase “imparare dai propri errori” non ha molto senso: tanto non ci sarà mai riproposta una situazione assolutamente analoga a quella precedente.

La figura della donna sembra essere prevalente per quella che sembra un’azione coraggiosa ed attiva nel proporre un cambiamento all’uomo, ma in realtà ciò che davvero prevale, alla fine, non è piuttosto la figura maschile?

E non capita così nella realtà? Le donne sanno illudersi di più, si raccontano favole belle e ci credono profondamente. Forse vivono meglio, grazie a questo, sono più vivaci, reattive, coraggiose. Non è raro che riescano a contagiare i maschi coinvolgendoli nei loro sogni, ma se prevale il punto di vista maschile, alla fine, è perché è più realistico e smagato. I sogni vanno sognati, ma in misura proporzionale alla possibilità di realizzarli.

I personaggi sono dei quarantenni di oggi, degli “ex-trentenni”: esiste una particolare forma di attesa che ha colpito questa generazione piuttosto che un’altra, oppure specifica della coppia per come viene intesa nei giorni nostri?

Almeno gli ex trentenni di oggi, e quelli ancora più giovani, non si sono alimentati col sogno di cambiare il mondo! Le batoste degli ex sessantottini sono state molto più grosse di quelle cui sono destinati gli under quarantenni contemporanei. Il mondo potrebbero persino cambiarlo sul serio, pressati come sono dai giganteschi problemi non più rimandabili. Mi danno l’impressione di non aspettare nessun Godot, né tanto meno nessun Messia salvifico, di affrontare le cose con più concretezza e urgenza. Non sono immobili e apatici come li dipingono spesso i media. Sono in allerta.

Immagini il Suo pubblico fatto di persone in attesa -non sappiamo né dove né quando-, fra le quali si manifesta un’azione drammaturgica inconsapevole: sembra di parlare né più, né meno di una scena come le tante che a Napoli è possibile vivere per strada quotidianamente…

E’ quello che ho fatto scrivendo Grandi speranze: ho immaginato queste tre persone che si muovono e si spiano in mezzo alla folla che aspetta di entrare in platea. Gente che si annoia e quindi diventa ricettiva a qualsiasi stranezza, anche minima, succeda intorno. Siamo a Napoli, non a Stoccolma, e così ho fiducia che la gente s’impicci. Gente che apre le orecchie per spiare e decifrare un litigio coniugale, una storia d’amore forse rinascente, forse perduta per sempre.

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