Mio intervento su MOSAICO, rivista internazionale interamente dedicata a MORAVIA (settembre 2016)
ALBERTO MORAVIA. RITRATTO ATTRAVERSO LE LETTERE
Il 28 febbraio del 1971, quando uscì Io e lui, romanzo di Alberto Moravia che non le era piaciuto, Natalia Ginzburg scrisse su La Stampa una “stroncatura” che si trasformò in uno dei ritratti più affettuosi dello scrittore: «Conoscendolo da tempo credo che non volergli bene sia impossibile, essendo una delle persone più limpide, gentili e umili che possa succedere di incontrare. Però […] mi sembra che la sua immagine pubblica risulti esattamente il contrario di quella che è la sua persona reale. La sua immagine pubblica appare altezzosa, autoritaria, sprezzante e compiaciuta di sé. Nell’avvicinarlo, uno si trova davanti di colpo la sua grande innocenza, la sua profonda e candida serietà»[1]. La Ginzburg coglie perfettamente la distanza e la contraddizione fra l’idea che Moravia dava di sé pubblicamente coi suoi modi bruschi e assertivi, annoiati e sbrigativi, e la verità del suo essere, mite e accogliente, curioso e sul serio innocente, come sono i bambini e come appariva a chi aveva con lui una familiarità o almeno una conoscenza non di superficie. La lettura delle sue numerose lettere conferma in modo quasi didascalico la verità còlta con tanta precisione dalla Ginzburg sull’amico Moravia, e aiuta a ricostruirne il carattere in parallelo all’elaborazione del suo lavoro giovanile e alla formazione della sua identità di scrittore.
Controcorrente rispetto a quanto succede generalmente in Italia, paese in cui l’editoria è poco interessata agli epistolari e alle biografie, Moravia ha avuto un destino diverso, che allinea – anche in questo – la sua figura a una dimensione internazionale. Pur essendo lui una persona distratta, che non amava conservare né oggetti né lettere, parecchio è rimasto (grazie ai destinatari) della ricca corrispondenza e, in anni recenti, molto ha cominciato a essere raccolto e pubblicato. Disponiamo al momento dei seguenti volumi: Carmen Llera, Finalmente ti scrivo, Bompiani 2009; Alberto Moravia, Lettere ad Amelia Rosselli, con altre lettere ai familiari e prime poesie (1915-1951), a cura di Simone Casini, Bompiani 2010; L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, a cura di Daniele Morante in collaborazione con Giuliana Zagra, Einaudi, 2012; Alberto Moravia, Se questa è la giovinezza vorrei che passasse presto, (lettere 1926-1940), a cura di Alessandra Grandelis, Bompiani 2015, primo volume di quello che si annuncia un corposissimo epistolario destinato a dare testimonianza della vita intera.
La primissima lettera porta la data 19 marzo 1915[2], il piccolo Alberto non ha ancora otto anni e da Roma scrive a Firenze al cugino Carlo Rosselli, che ne ha quasi sedici. Carlo è il figlio di Amelia, sorella di Carlo Pincherle, ebreo non praticante, padre del futuro scrittore che adotterà successivamente uno pseudonimo. In questo primo messaggio Alberto ringrazia il cugino di un regalo e parla della propria salute, tema che diventerà un leit motiv per l’aggravarsi di una tubercolosi ossea che funesterà infanzia e giovinezza dello scrittore. Ma per il momento si è trattato solo di una polmonite al cui proposito dichiara di essere in via di guarigione. Il tono è spensierato, ignaro delle fosche conseguenze di quella malattia che prenderà poi la scena, della vita come delle lettere. Lo tormentò per dieci anni, anche in conseguenza di sbagliate cure iniziali, molto dolorose fra l’altro. Fu proprio la zia Amelia a rendersene conto e a insistere con il fratello perché ricoverasse il figlio in un nuovo istituto, il Codivilla di Cortina d’Ampezzo, specializzato in morbi alle ossa. Moravia vi entrerà sedicenne, il primo giugno del ’24, e ne uscirà sedici mesi dopo, completamente guarito ma per sempre claudicante.
«Hai mai visto quei pupazzi dei tiri a segno che colpiti s’abbassano per poi rialzarsi ed abbassarsi di nuovo sotto i tiri dei giocatori? Ebbene io sono molto simile a quei pupazzi»[3] si descrive alla zia, all’inizio di quello stesso anno cruciale, per rendere chiara la sua disperazione, preda com’è di costanti ricadute del male e, quindi, delle insopportabili terapie. Si comprende, leggendo questa penosa cronaca di dolore fisico e solitudine e noia infinite, la costruzione di un carattere forte e resistente alle frustrazioni, tollerante e distaccato che più avanti nel corso dell’esistenza gli permetterà di sopportare l’insopportabile nella convivenza con Elsa Morante, anche questo periodo testimoniato abbondantemente nell’epistolario della scrittrice come nella lunga intervista biografica con Elkann a cui Moravia dice, fra l’altro: «Ho una grande capacità di sopportazione di qualsiasi sofferenza fisica e morale appunto perché da bambino ho dovuto sopportare per forza le sofferenze della malattia e della solitudine»[4].
Ma procediamo con ordine. Un intenso scambio di lettere va sempre a ritrarre non solo una relazione, ma due personalità, e anche se questo epistolario è monco della voce di Amelia Rosselli, per la sparizione delle sue risposte al nipote, pochi testi superstiti a parte, lo stesso ne viene fuori indirettamente la fisionomia di una donna speciale, colta e tenera, generosa e appassionata, che sopporterà con grande dignità la morte violenta e precoce di tre figli: Aldo, il primogenito, muore nella prima Guerra Mondiale, Carlo e Nello sono assassinati il 9 giugno del 1937 a Bagnoles-de-l’Orne, in Francia, per mano di cagoulards francesi armati dal governo italiano. Va detto, per inciso, che la sparizione dei documenti fu dovuta in questo caso non solo all’indifferenza di Moravia rispetto al passato, ma anche alla bufera della Storia. Lo scrittore, infatti, dopo l’assassinio dei cugini, lui stesso inviso a Mussolini in persona, si trovò costretto a cancellare ogni traccia dei suoi fitti rapporti con la famiglia Rosselli. Resta comunque decisivo, come nota Simone Casini nell’introduzione, il fatto che «il passato in quanto tale non riveste per Moravia alcun interesse. Viceversa la sua opzione per il presente è dichiarata, coerente, esclusiva»[5]. E viene qui in mente un ricordo di Cesare Garboli che un giorno dei primi anni Sessanta accompagnò Moravia sui luoghi della Ciociara, intorno a Fondi, gli stessi luoghi dove durante la guerra lo scrittore si era rifugiato con Elsa Morante, da cui però – al momento della passeggiata nostalgica – si stava separando. Alberto era agitatissimo, racconta Garboli, e continuava ad andare su e giù mostrandogli dove era successa una cosa e dove un’altra e ripetendo un ritornello ossessivo: «Il passato non esiste. Il passato non esiste»[6].
Il Moravia che nel ’27 ha già abbandonato il cognome paterno, Pincherle, perché scopre di aver un omonimo in un intellettuale del tempo allora abbastanza noto, e che, nel ’29, ottiene un immediato successo con il primo romanzo, Gli indifferenti, è su posizioni politiche ed esistenziali molto diverse da quelle dei cugini, che pure ama teneramente e per i quali ha motivi di riconoscenza. Sua patria è la scrittura e, senza dirlo apertamente all’inizio, considera l’attivismo antifascista ingenuo e passatista, fermo su ideologie risorgimentali. Carlo, per parte sua, era stato con Amelia fra i suoi primissimi sostenitori, gli aveva sempre consigliato i libri giusti da leggere e l’aveva introdotto nel vivace ambiente fiorentino così diverso culturalmente dal borghese mondo della famiglia Pincherle. Però, poi, spera di portarlo dalla sua parte, la parte della politica attiva e dell’opposizione dura al fascismo, e forza le cose pubblicando il 4 gennaio del ’35 su Giustizia e Libertà, il giornale d’opposizione da lui diretto, una compromettente esaltazione dell’autore degli Indifferenti, dove inventa (quasi a suggerirla) una censura al suo secondo romanzo, Le ambizioni sbagliate, che attira le sgradite attenzioni del regime su Moravia. Per la prima volta lo scrittore si vede bloccato nella doppia attività di narratore e di giornalista, e corre ai ripari cercando di ricucire la frattura col regime, inviando lettere di conciliazione (pur senza mai dichiararsi fascista, anzi negandolo). Poi gli eventi precipitano e, quando Nello e Carlo vengono uccisi, non può neppure consolare la zia per non compromettersi. La frattura durerà molti anni fino a una lettera di scuse che porta la data 28 ottobre, probabilmente del 1945: «Il mio silenzio di allora non fu facile, come tu puoi pensare, io volevo troppo bene a tutti voi…»[7]
Amelia Rosselli, scrittrice lei stessa, commediografa di un qualche successo e autrice di due libri per bambini, Topinino e Topinino garzone di bottega, letti con gioia dal nipote, non era stata solo la salvatrice, dal punto di vista della salute, di Alberto Moravia, ma anche la naturale referente delle sue ambizioni letterarie. Il ragazzo le invia le prime prove poetiche e discute con lei di libri, che legge come un matto, essendo la lettura la sua quasi esclusiva attività. In sanatorio lo vediamo completare la formazione linguistica, oltre al francese che sapeva fin da piccolo, è in grado di leggere romanzi in inglese (persino qualche capitolo dell’Ulisse di Joyce, che completerà in traduzione francese) e si mette a studiare il tedesco. Sebbene a più riprese dirà che non era fatto per la letteratura e che mai sarebbe diventato scrittore se non fosse stato per l’immobilità cui la malattia lo costrinse («non ero fatto per questa vita di talpa»[8]), le lettere ad Amelia sono testimonianza della nascita e dello sviluppo di una precisa vocazione artistica come pure dell’impostazione di una voce perentoria e riflessiva («quando non si vive ci si annoia e quando si vive si soffre – e questo è tutto -»[9]). Un’espressione, «e questo è tutto», che resterà un intercalare anche dell’uomo adulto.
Voce che ritroviamo, sempre più sicura di sé, nel primo volume dell’epistolario completo che sta curando Alessandra Grandelis. Incrociamo anche qui la zia Amelia e alcuni personaggi che già compaiono nel libro da cui abbiamo citato alcuni brani, perché le due raccolte si sovrappongono di almeno quattordici anni. C’è per esempio, divenuta protagonista, una figura decisiva nella vita dello scrittore, quell’Umberto Morra di Lavriano, nobile e intellettuale, che lo introdurrà al circolo esclusivo di Bernard Berenson, e che gli resterà amico per tutta la vita. E di nuovo i fratelli Rosselli e alcuni altri rivoluzionari anomali, più congeniali all’impostazione antiromantica del nostro autore: Nicola Chiaromonte e, soprattutto, Andrea Caffi (il Kafi di Lessico famigliare, altro interessante punto di contatto fra Moravia e la Ginzburg). Ma soprattutto si precisa una personalità smaliziata e onnivora, che ha la smania di parlare di tutto con tutti gli interlocutori reputati all’altezza, che ha una grande voglia di migliorarsi e non teme le critiche e che tratta con sufficienza il proprio grande successo: le «soddisfazioni non servono a un corno» scrive a Umberto Morra il 12 luglio del 1929 «e non ci s’impara nulla se non a diffidare sempre più di se stessi»[10]. Viene in mente che, settantenne più o meno, amava ripetere: «Il successo l’ho avuto subito e non ci ho pensato più. Così, insomma, non è mai stato un problema»[11].
Il ragazzo esilissimo che pesava solo 45 chili per un 1,84 di altezza all’entrata in sanatorio, sta diventando un giovanotto smanioso di innamorarsi, perché ha un enorme bisogno di recuperare il tempo, come il peso, perduti. Ma qualcosa fra desiderio e realtà si è inguaribilmente incrinato in lui e così gli amori saranno sempre difficili e riuscirà a inanellare soprattutto storie complicate con donne irrequiete e confuse che non sanno riempire il suo altrettanto ambivalente bisogno d’amore. Che si chiamino Silvia Piccolomini o Lélo Fiaux, passioni della giovinezza, o Elsa Morante, la prima moglie, o Carmen Llera, l’irrequieta seconda moglie, il ritratto di Moravia innamorato è quello di un uomo insofferente e deluso, che tanto più chiede amore quanto più si sente respinto. Fa eccezione, forse, il lungo sodalizio con Dacia Maraini, stando a quanto lui stesso dichiarò a Alain Elkann nel libro-intervista che è una sorta di autobiografia in cui i diciotto anni con lei sono definiti: «i migliori della mia vita» e gli hanno lasciato l’impressione «di due diversità che si completavano»[12]. Peccato che, per il momento, non sia ancora disponibile l’epistolario di questo periodo (anni Sessanta-Settanta), e chissà che non riservi sorprese.
Moravia e Morante si conoscono nel ’36 e si sposano nel ’41. Gli inizi non sono facili. E’ lui a sfuggire in questo caso. Dice a Elkann: «Non sono mai stato innamorato di Elsa, l’ho amata, questo sì, ma non sono mai riuscito a perdere la testa»[13] e: «mi piaceva perché mi amava e questo mi attraeva»[14]. Incrociando gli epistolari dei due scrittori si può ricostruire la storia torturante della loro relazione, ma due dichiarazioni mi paiono particolarmente illuminanti sul carattere di Moravia. In una lettera a Giorgio Vigolo del 29 agosto ’38 Elsa, che è a Capri, gli scrive così del compagno lontano: «dovrebbe, pare, venire anche lui. Io non gli dico troppo di venire, perché so che questo sarebbe proprio il sistema per non farlo venire […] qui si potrebbe essere felici, ma come dire ad Alberto una cosa simile?»[15]. Lui, qualche mese prima, aveva scritto allo stesso Vigolo: «Di Elsa manco da qualche tempo di notizie – le avevo scritto una lettera spiegandole il mio carattere – speriamo che non se l’abbia avuta a male»[16]. Elsa non se l’è avuta a male, ma soffre nel capire la nevrosi di lui: «Desideri solo quello che non hai e ho paura che sarà sempre così»[17] gli risponde amaramente nello stesso periodo. Ed ecco un’innocente ammissione di lui, in una lettera alla moglie databile approssimativamente 1950: «Purtroppo il momento in cui ti amai di più fu quello in cui tu decidesti di non amarmi più affatto»[18]. Non c’è bisogno dell’analista per arrivare a capo di una simile psicologia e per comprendere l’atteggiamento masochista di cui lo scrittore dà prova in molte altre lettere che scambiò successivamente con una Morante ormai ferocemente vendicativa o con la fuggitiva e molto più giovane Carmen Llera (i messaggi a lei indirizzati si trovano in Finalmente ti scrivo).
Viene sempre il momento, quando ci si occupa del privato degli artisti, in cui ci si domanda cosa aggiunga, e se aggiunga qualcosa, conoscere nei dettagli gli avvenimenti della loro vita. Personalmente la penso come Cesare Garboli, ma solo a metà, quando sostiene che «l’opera di un autore, e le linee della sua vita, sono due entità incommensurabili. Due realtà autonome, due sintesi, per dirla in gergo crociano, dialettiche ma indipendenti»[19], vale a dire che l’opera può fare a meno della biografia. Ma non il contrario, secondo me: l’opera, quando ci intriga, porta naturalmente alla biografia, perché è questa a non poter fare a meno dell’opera. E’ infatti lo stesso Garboli a chiedersi: «Dove va a finire nei libri che leggiamo la persona fisica che li ha scritti?»[20] e a rispondersi in questo modo: «Nei libri c’è sempre, più o meno nascosta, una corrente fisica, simile a un’ondata piena di energia che abbia trovato nel vuoto lo spazio dove assestarsi»[21]. Per me, lo confesso, i libri sono «indizi per venire a capo dell’affascinante enigma posto dall’esistenza di una persona»[22] come scrisse una volta Giovanni Raboni (forse parafrasando una frase di Philip Roth nel romanzo Lo scrittore fantasma: «Quando ammiri uno scrittore t’incuriosisci. Cerchi di carpire il suo segreto. Gli indizi per risolvere l’enigma che rappresenta») e (citando Garboli ancora una volta) «più dei libri mi hanno sempre interessato […] le persone. Più della “letteratura”, tutto quello che la letteratura nasconde e rivela»[23]. Se poi volessimo l’avallo d’un classico, ecco Ugo Foscolo che cito semplificandolo: «A intendere le parole degli scrittori più che mille commentatori giova la conoscenza delle loro anime»[24]. Ma in conclusione, tornando a Moravia, cosa intendiamo meglio delle sue opere conoscendone l’anima rivelata dalle sue lettere? Sicuramente ritroviamo i modelli di tanti suoi personaggi femminili e in particolare negli scambi con Amelia Rosselli e in quelli del periodo fino al 1940 abbiamo un “ritratto dell’artista da cucciolo” che tanto spiega dell’uomo futuro («uno schizofrenico che funziona perfettamente»[25] lo definì Garboli), della sua formazione solida e non scolastica, delle sue aperture europee, della sua smania per i viaggi lontano e la conoscenza diretta dei luoghi e delle persone, tutti aspetti che andranno a nutrire quella sua lingua letteraria diretta e nuova, precisa, disadorna, capace di ricostruire sulla pagina esseri umani realissimi e privi di abbellimenti sentimentali, una lingua fortemente innovativa che abbagliò e convinse subito anche i critici più severi della sua generazione.
Se è la vita amorosa a dire delle persone qualcosa in più di ogni altro aspetto che le riguarda, non si può però trascurare la parte, prevalente negli epistolari moraviani, riservata agli intensi scambi amichevoli, soprattutto con interlocutori maschi. Sono lettere rasserenate e pensierose, che tessono una fitta rete di relazioni e di scambi intellettuali e che parlano di una gestione saggia e proficua delle amicizie, quanto dissennata appare quella delle relazioni sentimentali. In queste lettere Moravia rivela l’aspetto forse maggiormente attraente del suo carattere: una schiettezza mai opportunista e quell’“innocenza” brusca di cui parlava Natalia Ginzburg che lo faceva apparire disarmato eppure straordinariamente forte e mai mascherato nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Fra queste amicizie quella con Pier Paolo Pasolini fu sicuramente la più importante: «Era il mio migliore amico…Non andavamo d’accordo su molte cose, forse per questo alla fine andavamo d’accordo. E poi c’era un vero, profondo affetto, come tra fratelli»[26]. Tutto cospirava perché s’incontrassero. Avevano molti amici in comune, Mario Soldati, Attilio Bertolucci, Sandro Penna, e nella Roma degli anni Cinquanta era difficile non incrociarsi in un caffè di piazza del Popolo, in un’osteria alla buona per artisti, nei salotti letterari dei Cecchi, dei Debenedetti, dei Bellonci, della de’ Giorgi, nella redazione di Nuovi Argomenti, la rivista nata nel ’53 e diretta da Moravia. A presentarli, però, era stata Elsa Morante: aveva conosciuto Pasolini tramite Penna e aveva apprezzato le sue poesie proponendole al marito proprio per Nuovi Argomenti nel ’54. L’anno dopo i due scrittori erano già gli amici inseparabili, impegnati, polemici che il pubblico poté seguire per vent’anni sui giornali, nei dibattiti, in tv, oltre che nelle opere tanto diverse che creavano. Anche in questo caso la pubblicazione delle lettere che si scambiarono potrà documentare a fondo, quando avremo a disposizione gli altri volumi dell’epistolario completo, un’amicizia fra due protagonisti tanto significativa nella storia letteraria del nostro paese.
Per ora altre lettere sono anticipate nella biografia Alberto Moravia, scritta da René de Ceccatty per Flammarion nel 2010, e tradotta in Italia da Bompiani nello stesso anno, ma soprattutto nel bel memoir, vivo e sincero, o romanzo-saggio come lo definisce l’autore, dedicato alla vita di Moravia e firmato da Renzo Paris in cui, per esempio, sono riportate alcune interessanti lettere dello scrittore alla sorella pittrice Adriana Pincherle e con il quale mi piace concludere citando questo giudizio di Paris: «Fin da quando l’ho conosciuto, nell’inverno del 1965, Alberto Moravia mi è apparso come un uomo solo»[27], un “lucente eremita”, secondo la definizione di Sandro Penna, che visse «tutta una vita controvoglia»[28].
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NOTE
[1] Testo raccolto in Natalia Ginzburg, Vita immaginaria, Mondadori, 1974, pp. 23-24
[2] Alberto Moravia, Lettere ad Amelia Rosselli, con altre lettere ai familiari e prime poesie (1915-1951), a cura di Simone Casini, Bompiani 2010, p. 299
[3] Ivi, p. 170
[4] Alberto Moravia, Alain Elkann, Vita di Moravia, Bompiani 1990, p. 184
[5] Ivi, p. 89
[6] Cesare Garboli, Pianura proibita, Adelphi 2002, p. 172
[7] A. Moravia, Lettere ad Amelia Rosselli, cit., p. 335
[8] Ivi, p. 261
[9] Ivi, p. 257
[10] Alberto Moravia, Se questa è la giovinezza vorrei che passasse presto, (lettere 1926-1940), a cura di Alessandra Grandelis, Bompiani 2015, p.68
[11] Alberto Moravia all’autrice di questo intervento, seconda metà degli anni Settanta.
[12] Moravia, Elkann, Vita di Moravia, cit., p. 213
[13] Ivi, p. 112
[14] Ivi, p. 114
[15] Lettere di e a Elsa Morante, a cura di Daniele Morante in collaborazione con Giuliana Zagra, Einaudi, 2012, p. 23
[16] A. Moravia, Se questa è la giovinezza vorrei che passasse presto, cit., p. 365
[17] E. Morante, Lettere di e a, cit. p. 137
[18] Ivi, p. 146
[19] C. Garboli, Pianura proibita, cit., p. 71
[20] Ivi, p. 134
[21] Ivi, p. 135
[22] Citato da C.Garboli in un articolo del 16/7/1999 su La Repubblica poi raccolto in Pianura proibita, cit, p. 133
[23] C. Garboli, La stanza separata, Scheiwiller 2008, p. 27
[24] Ugo Foscolo, Discorso sul testo della Commedia di Dante, paragrafo LXXI. Testualmente il passo dice così: «Pur a molti lettori, ed io mi son uno, pare che a volere accertarsi degli intendimenti delle parole, mille commentatori non giovino quanto l’impratichirsi delle passioni e dei caratteri degli scrittori che nel loro stile trasfondono tutto quello che sentono».
[25] La definizione di Garboli è scherzosamente profonda. Si trova in La stanza separata, cit., p. 283
[26] Moravia Elkann, cit., p. 255
[27] Renzo Paris, Moravia, una vita controvoglia, Oscar Mondadori, 2007, p. 315
[28] Ivi, p. 316.