Ricordando ALDO ROSSELLI a 3 anni dalla scomparsa (in you-ng.it)
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L’uomo che scambiò il suo calzino per un cappello
Il nome di Aldo Rosselli evoca subito in me la giovinezza. Per la ragione ovvia che, quando l’ho conosciuto, tanti e tanti anni fa, io ero giovane, sui venticinque anni più o meno, ma soprattutto perché anche Aldo – pur contando quasi due decenni in più – era giovane. Sì, da lui la giovinezza sprizzava come il getto allegro di una fontana, perché era giovane dentro, aveva uno spirito eccentrico, esuberante, generoso. Era maniacale ed entusiasta. La sua vasta cultura non pesava come un macigno che frena, ma invece lo spingeva verso la ricerca, il nuovo, l’inusuale. Così come la tragedia della sua famiglia non pesava mai nelle sue parole e sulle sue amicizie; era una crepa segreta, che accendeva in lui stranezze e malinconie, ma per niente al mondo ne avrebbe fatto un vanto e tantomeno una croce.
Quanto poco sappiamo delle persone che incrociamo nella vita, e adesso – se devo scrivere di Aldo, della persona Aldo, non dello scrittore di cui diranno meglio i critici – mi si affolla in testa la schiera dei ricordi confusi e frammentari senza che io riesca ad allinearli in una sequenza coerente. Aldo che legge le prime cose che vado scrivendo e m’incoraggia, Aldo che mi trascina a teatro a vedere gli spettacoli più interessanti, Aldo circondato da donne bellissime, Aldo sempre un po’ innamorato di queste donne bellissime e da loro amato pazzamente, Aldo che contribuisce con i suoi libri al successo della giovane casa editrice Theoria che un manipolo di giovani intellettuali senza una lira e pieni d’ingegno ha fondato a Roma nei primissimi anni ’80: A cena con Lukàcs 1986, L’apparizione di Elsie 1989, La mia America e la tua 1995. E improvvisamente mi sento invasa dalla nostalgia, nostalgia di Aldo e insieme di quel periodo promettente e disordinato dove una persona come lui, una persona capace di potenti dissipazioni e totalmente incapace di calcolo, era la benvenuta.
A casa sua, in piazza in Piscinula, uno dei cuori dell’antica Roma, in Trastevere, s’incontravano scrittori e intellettuali delle più diverse inclinazioni, italiani e stranieri, tanti americani, soprattutto tanti americani, e le solite bellissime donne, e le finestre che davano sulla piazza erano illuminate e da sotto vedevi e sentivi l’allegra baldoria di quegli incontri dove si mangiava in piedi con distrazione condiscendente e invece accanitamente si parlava si parlava si parlava, di letteratura, di teatro, di cinema, e passava Moravia, trascinando la gamba zoppa su per le scale senza ascensore, sbuffando con la sua aria annoiata di sempre e i suoi dolcissimi occhi attenti di sempre.
Un giorno Aldo mi raccontò, forse proprio dentro una di quelle feste, di una passeggiata su un ponte nei suoi amati Stati Uniti, non so più in quale città, ma qualcosa mi dice che fosse il ponte di Brooklyn, perché il nome risuonava mitico e desiderabile alle mie orecchie – non l’avevo ancora mai visto se non su uno schermo – e la città quindi doveva essere New York e ora riesco a visualizzare la scena come allora: vedo quel piccolo uomo rotondetto, tentato forse dall’acqua, in mezzo all’immensità della natura e alle giganti strutture d’acciaio. Si era, infatti, fermato a guardare il fiume, l’East River certo, scorrere sotto e d’improvviso si era accorto, nell’infuriare del vento, di essersi infilato in testa, invece del solito berretto, un calzino! Per distrazione, per allegria, e ora quel calzino non lo proteggeva per niente dalle raffiche: ed era questo il problema che stava cercando di comunicarmi, non la città e i suoi simboli, non la memoria di una passeggiata speciale, ma l’elemento buffo del ricordo, che tanto precisamente lo rappresentava. Mi stava dicendo qualcosa di profondo di sé.
C’è tutto Aldo Rosselli in questa scena, uomo piccolo e tondo, solo sul Ponte di Brooklyn, con un calzino in testa. C’è tutta la sua naufraga allegria, quella che possiedono i veri disperati, le persone intelligenti e ferite, anticonformiste e troppo argute per lasciarsi cogliere da un estraneo, o persino da un amico, mentre si leccano le ferite. Quell’uomo, che aveva scambiato il suo calzino per un cappello, era uno che non sapeva e non voleva fingere, era se stesso sempre, e sempre si dava autentico nelle sue rappresentazioni di sé. Con la mitezza dei suoi occhi chiarissimi, del suo volto pieno e pallido, del suo ciuffetto ribelle in cima al capo che perdeva i capelli.